sabato 27 ottobre 2012

Democrazia e "progresso"...

Repliche Tradizionali  alle tesi democratiche"di Pierluigi.






Lasciando da parte l'oziosa questione filologica (δῆμος (démos) e κράτος (cràtos) che aggiungerebbe altra carne a cuocere, vale a dire incomprensibili orpelli ai lettori, occorre passare immediatamente alla materia di cui si vuole trattare.  Le parole hanno un senso per chi le comprende, per altri rappresentano una zavorra che finisce per appesantire e, dunque, complicare il discorso.  Tuttavia, siamo consapevoli -in un certo senso- dell’impraticabilità della democrazia. Non si sta sviluppando quello che sembrerebbe essere il portato naturale di questa consapevolezza. Mi pare di notare, a differenza di Pierluigi, una forte ripresa dei temi democratici. Basta girarsi intorno per notare il "fiorire" di tutta una serie di conferenze e dibattiti intorno al tema. Questo dato di fatto - evidentemente - la dice lunga sullo stato di paura che sta invadendo le classi dirigenti. Questa constatazione - che è apparentemente contraddittoria - mi porta ad affermare che dovremmo parlare di democrazia non come una cosa inerente al diritto sociale, ma come un’aspirazione, poiché essa - in concreto - non s’identifica (né mai s’identificherà) con una realtà compiuta. Ma facciamo un passo indietro. 


Breve Storia della Democrazia.






Il mondo antico romano ha avuto un'esperienza di élites molto duratura, prima fra tutte veniva il Senato romano, nonostante le continue proscrizioni e i gonfiamenti intenzionali (pensiamo ai 900 senatori nominati da Cesare). Altro esempio era quello delle grandi famiglie ateniesi,  nei due secoli compresi fra Solone, iniziatore del modello democratico, e la caduta di Atene nel IV sec. A.C. 
Nella Grecia antica la gestione della polis avveniva, di solito, entro uno spazio pubblico delimitato, nel quale i cittadini più importanti potessero discutere. Un esempio pratico era  l'agorà in Grecia, o il forum della Repubblica Romana.

Da un punto di vista etimologico, politica significa gestione della polis, ovvero della comunità.
L’ambito fisico è stato sempre quello delle città. Secondo Aristotele le dimensioni di una città non dovevano essere rilevanti. 

L'ampliamento della cittadinanza ai non possidenti, che differenzia nettamente il modello di governo ateniese da quello spartano, era intrinsecamente legato alla nascita dell'impero marittimo ateniese.  Impero che i "marinai democratici" concepivano come un universo di "sudditi"; cioè come popoli da spremere come limoni... Questo fatto sfata il mito secondo cui gli Ateniesi fossero più buoni dei cugini Spartani.
 Il vincolo di solidarietà con gli alleati di Atene veniva considerato come l'allargamento del modello democratico alle città, dove dunque c'è una minoranza di possidenti che lo accettava e lo difendeva. Tuttavia, questo modello non era per nulla automatico né indiscriminato.  Basti ricordare che la popolazione libera era di circa 30.000 maschi adulti, ma non più di 5000 parteciparono all'assemblea decisionale. A ogni buon conto, i problemi da esaminare dovevano essere discussi in modo diretto, con un certo grado di familiarità fra i cittadini stessi. Quindi, una città che avesse dimensioni modeste - non piccolissime però – era l’ideale. L’estensione della cittadinanza ai non residenti rappresentava un carattere molto preoccupante che allora poteva essere facilmente arginato, mentre oggi è assolutamente preponderante e incontrollabile.
Fin dall'antichità la democrazia era considerata come la forma di governo della massa che ignora i suoi limiti, senza alcun valore degno di nota, egoista, individualista, estremista, arrogante e instabile e perciò facile preda dei demagoghi
Era sì la democrazia un modello, ma un modello essenzialmente negativo, una disgrazia insomma. Per dirla con Platone la democrazia era la diffusione di quella libertà sfrenata ed arbitraria che nelle oligarchie è appannaggio di pochi.
Scena tratta da "I cavalieri" di Aristofane
 "La democrazia è il regime in cui il popolo ama essere adulato anziché educato. Un tal governo non si da alcun pensiero di quegli studi a cui bisogna tendere per prepararsi alla vita politica ma onora chiunque che si professa amico del popolo".  Platone 


A tal proposito occorre annoverare una celebre commedia di Aristofane (i cavalieri), dove Due servi del Popolo, disprezzano un terzo servo, Paflagone, poiché quest'ultimo si è assicurato i favori del padrone con un comportamento ipocrita e adulatorio.  
Aristotele riteneva che la democrazia - come forma di governo - fosse preferita dal popolo perché i poveri rappresentavano la maggioranza, e dunque potevano aver facilmente ragione sui ricchi.

Scorrendo le pagine ingiallite dei libri di storia si scopre che la democrazia è piuttosto un mezzo: ma affermare che sia solamente tale è un errore grossolano. Farlo diventare un fine è forse - come vedremo più avanti - una necessità per i cosiddetti poteri forti. 
Al popolo la democrazia viene perdonata...per il noto principio secondo cui "nessuno è sfavorevole a se stesso"... ma a un benestante essa nuoce gravemente, e non solo ai suoi averi...
Se si considera che un personaggio come Pericle per un verso è giudicato da Tucidide come un personaggio che anti demagogicamente guida il popolo e per converso da Platone come il corruttore del popolo si coglie benissimo in questa contraddizione la difficoltà per gli analisti e gli storiografi di sciogliere il dilemma: guidavano o erano guidati? 
Tucidide fa dire a Pericle nell'epitaffio che ad "Atene governa la legge". E questo rende la democrazia diversa da tutti gli altri sistemi. Senofonte, viceversa, nei "Memorabili" gli fa dire il contrario.  In democrazia - in ultima analisi - è la volontà del popolo che conta al di sopra della legge.  E comunque a ben vedere è la forza della demagogia ad avere l'ultima parola! 

Il concetto di Libertà


In primo luogo, occorre sottrarre il vago concetto di libertà (libertà per, da, in, con, su, per, tra, fra) a quello incrostato di "democrazia", per riportarlo alla sua origine precipua, attraverso alcuni percorsi che s’intrecciano e si dividono in successione.
Vorrei ricordare (non solo a Pier luigi ma anche a Tullia) che il concetto di libertà ha a che fare con una dimensione individuale e non collettiva. Inizialmente, la parola "libertà", in tutte le lingue indoeuropee, ha a che vedere con una crescita spontanea persino dei vegetali e degli animali, con qualcosa che non è impedito naturalmente.
Mi piace inoltre mostrare l'idea di libertà come conquista.  Il poeta Tirteo cantava che si è liberi solo se si è capaci di sopportare il sangue e la strage.
Ciò rinvia a una radice biopolitica. In altre parole, la libertà è assai rischiosa, tale che spetti solo agli eroi. Viceversa, merita di servire chi per viltà o indifferenza vuole conservare la propria vita, anche a discapito della propria libertà; oppure chi preferisce essere volontariamente un servo, barattando i propri favori per ottenere un vantaggio materiale.
Questa di barattare la sicurezza economica con la libertà è una dimensione che non è ancora scomparsa. Anzi, la ritroviamo, sotto svariate forme, assai praticata anche oggi... magari in una forma del tutto inconsapevole.

In tutta la tradizione antica, il diritto di guerra prevedeva una sorta di apertura di caccia, per cui le città conquistate erano messe a ferro e fuoco, le donne violentate o prese come schiave e gli uomini  abili alle armi uccisi. Secondo la Tradizione romana del "Parcere subiectis et debellare superbos" si assimila chi si sottomette e si uccide chi non lo fa.  Sul piano teorico si è discusso a lungo nell'ambito della filosofia su questa dialettica servo-padrone e si è parlato pure del rapporto di signoria e servitù. Quindi, in definitiva, la libertà non è per tutti; essendo per molti un pericolo, il concederla non rappresenta una virtù, ma una colpa.

La situazione odierna 


Oggi parlare di democrazia, essere democratici, vivere la democrazia sono le argomentazioni classiche che quasi tutti i partiti (anche quelli cosiddetti radicali) promanano a destra e a manca. Gli slogan sono quasi gli stessi: "Lavoro per tutti" (e fin qui nulla da dire...), "più diritti per tutti", "più potere al popolo" (qui qualcosina la direi...) più potere agli enti locali, meno stato, più servizi ecc. Parole come "libertà", "uguaglianza", "pluralità", sono oggi, come non mai, sulla bocca di tutti i politici occidentali: ma qual è il margine in cui il loro utilizzo retorico trapassa il lezioso esercizio demagogico e populista? Siamo davvero convinti di vivere in una civiltà democratica, nel senso etimologico del termine, di "governo del popolo"? Personalmente credo di no. Il nuovo ordine mondiale assomiglia oggi a una Tecno-oligarchia. Qualcuno potrebbe sostenere che "il vecchio stenta a morire e il nuovo stenta a nascere"Ma che cosa stenta a nascere per costoro? Semplice: stenta a nascere la sopranazionalità, cioè una democrazia sovranazionale. La Costituzione Europea è proceduta attraverso un’iperproduzione di norme, procedure e una crescita dell’esautorazione giuridica nazionale e, soprattutto, costituzionale. Il tutto a scapito della volontà popolare. Intorno a questo sviluppo abnorme delle istituzioni comunitarie si sono sepolte le identità nazionali ed etniche e tradizionali.
Ciò evidentemente sposta il baricentro della discussione in altro ambito che qui non esporrò.
In merito a quest’ultimo punto possiamo sostenere, senza tema di smentita, che mai quanto oggi si sente parlare di localismo e autonomie locali. 
Oggi, proprio quando il centralismo non è mai stato tanto oppressivo, si sente "stranamente" l'esigenza della municipalità, dell'indipendenza, del regionalismo e della federazione.
Cui prodest?
Nell’era odierna, fortemente urbanizzata, tutto ciò è impraticabile. L’urbanizzazione rappresenta una mefitica aberrazione della civificazione. Tale situazione ha reso inintelligibile la vecchia dialettica che era presente fra la città e la campagna, inghiottendo la “personalità” di quest’ultima, smembrandola e togliendole la sua antica dignità. I ceti contadini sono stati i grandi sconfitti durante i processi di “modernizzazione economica”. Tali processi hanno portato all’annichilimento delle tradizioni più sane, costringendo all’esodo migliaia di persone che – obtorto collo – hanno dovuto accettare lo sradicamento dal paese natio per affrontare la nuova ventura nelle città.

Da questa spersonalizzazione dell’umanità la città ha assunto un carattere tipicamente parassitario.
In tale ambiente si sono sviluppati i “germi” anti tradizionali come l’individualismo, la perdita dei valori spirituali, l’interscambiabilità dell’uomo con la donna, l'abbandono della terra natia, la spersonalizzazione del lavoro, l’alienazione dell’uomo rispetto al mondo, la riduzione dell’uomo a merce, a mero consumatore di prodotti. Ad accentuare il discorso sulla crisi dei partiti tradizionali concorre un'altra tendenza fondamentale: il declino della sovranità nazionale. Declino che sta conducendo all'evanescenza dei confini territoriali entro cui le democrazie moderne sono state impiantate. Se i confini delle entità statali vanno sfumando, le democrazie contemporanee saranno costrette gioco-forza a trasferire tutti i loro poteri verso entità sovranazionali, contraddicendo e negando qualsiasi specificità. Inoltre per continuare nel loro cammino, i governanti "democratici" dovranno, consegnare le chiavi delle loro casseforti (assets, beni pubblici, fonti di ricchezza reali), nelle mani della finanza internazionale che, dopo averle private della sovranità monetaria, passeranno all'incasso.  Nel nuovo contesto storico e tecnologico la perdita delle sovranità nazionali (che guarda caso erano motivo di orgoglio e rivendicazione al sorgere dei primi stati nazionali) adesso rappresentano un ostacolo sulla strada del Mondialismo globale. 
A questo devono aggiungersi le note considerazioni circa il sistema applicato dalle Banche nei confronti dei governi.
Aveva ragione Pound, quando asseriva che i politici odierni sono solamente “i camerieri dei banchieri”. La crisi Argentina è una delle tante palesi dimostrazioni. La sovranità politica senza di quella economica è una falsa sovranità.
E’ fin troppo ovvio che fin quando le oligarchie finanziare detteranno la loro legge, le cose non potranno che peggiorare. La proprietà della moneta deve essere attribuita a chi l’accetta, non a chi la emette, perché è lo stato che crea il valore monetario e il lavoro del suo popolo ne certifica la validità e la proprietà.

Ma torniamo alla domanda: a chi giova tutto questo?

E’ fin troppo evidente. Alle oligarchie finanziare... a chi se no?
Allo smembramento degli stati nazionali seguirà la creazione di piccoli stati regionali… i quali non avranno altra ragione se non quella di “servire” meglio il Governo Mondiale. E' una questione arcinota agli analisti della globalizzazione e della politica mondiale.


Credo che la convinzione generale di "essere liberi" sia un’illusione, non più di quella sottesa alla molteplicità che è giocata nella rete di Maya. Guardiamo ai fatti storici. L’Occidente è passato dalle punizioni corporali e dal supplizio in piazza a forme di potere non coercitive, nel senso che il dominio si esercita anziché sul corpo, sugli spazi e sull’Inconscio Collettivo (che è comunque un topos). Michel Foucault descrive molto bene il passaggio dal supplizio pubblico, esposto al generale ludibrio, - ma anche a pericolose forme d’identificazione con il condannato- all’universo privato della pena penitenziaria. (Se t’interessa ti consiglio di leggere l’opera di M. Foucault: Storia della Follia nell’età classica, Sorvegliare e Punire, nascita della clinica). Non si è trattato di "garantismo" o di "umanesimo". Secondo Foucault, il pubblico medioevale che assisteva in piazza alle torture finiva per identificarsi con il condannato, e questo era molto pericoloso per il Re. Il penitenziario ha essenzialmente lo scopo di rendere "privata" la punizione, al riparo dei pericolosi meccanismi d’identificazione delle folle (fenomeni proiettivi di questo tipo accadono anche ai nostri giorni, quando molti giovani hanno la tendenza ad emulare la devianza, vedi il caso dei lanci di sassi dai cavalcavia, o l’immaginario violento e guerriero degli hooligans). Sostengo, d’accordo con Foucault, che noi siamo più "civili" delle società che applicano la legge del taglione, non perché più illuminati, ma perché grazie alle scoperte delle tecnologie mediatiche siamo riusciti a passare dalla platealità ridondante dei pubblici supplizi, a un controllo morbido – ma continuo – che si esercita a livello sublimale.

Davvero siamo convinti che l’unico fine dell’apparato pubblicitario sia quello di vendere i prodotti? Guardiamo alla realtà: i media fabbricano i desideri e le opinioni. A cosa pensiamo che servano ad esempio le scienze umane, come la psicologia e la sociologia? Ad esercitare il controllo ossessivo ed ininterrotto dei comportamenti sociali. L’uomo moderno è irreggimentato da codici di comportamenti, che non percepiamo, perché colpiscono l’inconscio, l’immaginario. Pensiamo ai "valori" mediatici che ci sono inculcati fin dall’infanzia, il successo, la popolarità, ecc. Siamo codificati anche nelle nostre (false) trasgressioni, che diventano un altro momento di massificazione conformistica: lo avevano già insegnato i Greci con i Saturnali e il ritorno alla Notte Cosmica, all’Indistinto Primordiale, dove tutto ricomincia dall’inizio, e si annullano le differenze sociali. Quest’ossessione collettiva per il sesso e la pornografia, le adunate di piazza (che si tratti di curve del tifo o di Festivalbar), il mito della velocità e l’ebbrezza in discoteca… I criminologi sanno benissimo che nelle metropoli è utile lasciare delle "zone d’ombra", (di solito nelle periferie) per far si che siano utilizzate alla catarsi delle pulsioni distruttive (eh sì, perché puoi "normalizzare" finché vuoi, ma non puoi sublimare tutto…).
Mi permetto anche di proporti una chiave di lettura diversa, da quella che hai fatto tua, al riguardo della presunta estraneità alla cultura occidentale del nazismo e dello stalinismo.  premesso che non condivido l’equiparazione assiomatica del comunismo al nazismo, che era stata avanzata dal primo Nolte, ma anche lui, ultimamente ha ritrattato questa tesi), sostengo che il nazismo e lo stalinismo sono fenomeni non marginali, bensì attinenti ed omogenei alla cultura occidentale.

 Mi permetto di rimandarti alla Dialettica dell’Illuminismo di Theodor W Adorno ed Max Horkheimer, in cui viene colto un filo rosso, il nesso tra la Ragione dei Lumi ed Auschwitz. Dal sogno prometeico del dominio sulla natura, la Ratio illuminista espunge da sé qualunque ostacolo alla realizzazione dei suoi scopi (Dio, la morale). In breve si passa dal dominio sulla natura, al dominio sull’uomo. La Ragione dopo aver desacralizzato il Mondo, e sottomesso la natura ai suoi voleri, si trasforma in Ragione Strumentale, che si muove unicamente sulla linea di demarcazione causa-effetto. Il passaggio al Totalitarismo è breve: tutto quello che impedisce la realizzazione del profitto dev’essere rimosso.
Il Nazismo aveva un elemento pagano, ma comunque il paganesimo germanico (come pure quello greco), rientra nell’immaginario mitico dell’Occidente, ed è dunque un suo derivato. Il Nazismo, inoltre, era un coacervo di elementi ideologici: c’era senz’altro la parte pagano-occultista.  Era presente accanto a questa, però, anche la deformazione del Razionalismo Illuminista di cui ho parlato sopra. Un esempio tipico di questa degenerazione era proprio la Soluzione Finale, con la sua glaciale razionalità che ha mandato alle camere a gas otto milioni di ebrei. In questo caso, l’Olocausto diventa quasi un problema contabile, di dover "gasare" il giorno un certo standard di prigionieri, perché è funzionale all’ottimizzazione degli spazi. In questo puoi vedere all’opera la mostruosa deformazione della Ragione strumentale: "Quanti prigionieri gasare per arrivare all’optimum…”.
Non sono d’accordo con te, quando identifichi, di fatto, l’Occidente e il Cristianesimo. Infatti, è proprio l’avvento dei Lumi, e la scristianizzazione dell’Occidente ad aver prodotto quell’altro fenomeno storico che è stato il comunismo. Questo sistema politico nasce in Germania, non nella Russia asiatica, o in India. Marx, del resto era un ammiratore dell’Illuminismo, di cui si considerava un degno epigono. Anche il totalitarismo comunista (ripeto che continuo a mantenere la distinzione tra Marxismo, Leninismo e Stalinismo) come il nazismo sono quindi figli dell’Occidente, più in particolare della degenerazione sanguinaria illuminista.
Concludendo, amico mio, non sono d’accordo con te sulla cultura liberale e libertaria dell’Occidente "democratico". Noi non siamo più liberi, ma solo controllati meglio

©  ♚Pierre