sabato 8 ottobre 2011

Requiem

"Il termine socialismo non designa più un nessun ordine sociale esistente e neppure alcun modello di società realizzabile a breve o a lungo termine". André Gorz

"Il mondo è in continua "evoluzione". Il futuro è a portata di mano. Tutto cambia e tutti devono cambiare". Questo è il refrain che spesso ci sentiamo ripetere da più parti e che nessuno si sente di contrastare. Tuttavia, ciò rappresenta non tanto un idem sentire, quanto piuttosto il verbo liberal-capitalista propinato in varie salse  e a man bassa dal sistema. Questo refrain – per meglio dire - risponde alla logica del dover essere. La peculiarità di questo tipo di logica sta nella difficoltà di riconoscere ciò che è…ciò che viene dal basso, appunto. Questo moralismo – a mio parere - è molto radicato nella società odierna, per cui tutti gli altri “modi d’essere” e, più in particolare, l’essere insieme (comunitario) ha difficoltà ad essere compreso ed accettato.
Nell'attesa che si inverino le profezie economiciste, può essere utile riflettere sulla svolta storica che già c'è stata e che si può sintetizzare così: il turbocapitalismo continua - malgrado tutto - a stravincere perché i vari socialismi hanno irrimediabilmente perso la partita. Un giudizio molto severo, si dirà, non pienamente conforme ad una corretta analisi dei fatti, si potrebbe persino aggiungere. Tuttavia, dopo che il socialismo reale è stato costretto alla resa (anche perché non ha trovato un esercito di uomini che avesse tentato una qualche sparuta forma di resistenza), all'uomo comune non rimane altro da dire.
Dopo il superamento del bipolarismo (Usa-Urss) e della divisione della politica ideologico-sociale in due blocchi, sono falliti anche i cosiddetti socialismi riformisti.  Si può affermare, infatti, senza tema di smentita, che a furia di revisioni e compromessi, i socialismi riformisti si sono snaturati ad araldi dell'economia svincolata dalla politica, a bardi della finanza collocati al posto dello stato, dimenticando il ruolo dello stato centrale come catalizzatore del bene comune e organizzatore della politica sociale della comunità. Si potrebbe persino parlare di un vero e proprio naufragio del socialismo riformista che, a causa del senso di minorità nei confronti dell'universo liberale, è stato completamente annacquato dalla cultura vincente.  Qualcuno ha parlato – forse esagerando – di un “suicidio del Socialismo”. A questo punto non ha senso avere un "socialismo", quando esiste un "liberalismo progressivo" che tende a spostare l'ago della bilancia in favore del benessere. Lo Stato, come sintesi politica della società e organizzatore delle attività economiche, è sul viale del tramonto. Appare perciò lampante che, per le odierne società occidentali, non vi sia altro destino se non quello di essere governate dagli immensi flussi finanziari che scorrazzano senza limiti, manovrati dalle cosiddette oligarchie finanziare, attraverso innumerevoli canali di comunicazione. E come se si fosse data la stura ad una lunga era planetaria, in cui è l’egemonia incontrastata del denaro a farla da padrone. L'egemonia d’una ricchezza creata dal nulla e moltiplicata anatocisticamente sulle spalle dei lavoratori. Un’economia di carta, i cui parametri non sono rappresentati dalle risorse naturali ed umane di cui effettivamente si dispone, bensì dalla capacità truffaldina di rastrellare pseudo-moneta da impiegare in manovre speculative sulle valute dei vari paesi, ovvero in acquisizioni e smembramenti di imprese a carattere strategico e/o d'interesse nazionale. L’Italia, in questo senso, è un paese messo all’incanto. E' un paese che, per colpa di una classe politica composta in massima parte da inetti, viene messo all'asta e svenduto al migliore offerente. Il tutto per ripianare un bilancio falsato da truffe contabili e strutturali a vari livelli.
E' la stagione del potere usurocratico globale, il cui simbolo maggiore, oltre alle Torri gemelle, è la famigerata “Strada del Muro” (Wall Street).  Un muro assai più tenace di quello che è andato in frantumi a Berlino. E’ la stagione del capitalismo finanziario, del cosiddetto turbo capitalismo e, soprattutto, di un potere in cui i ministri decretano misure economiche antipopolari, digitandole attraverso le grandi banche di affari e dei grandi gruppi finanziari. Questi ultimi non investono alcunché, non si assumono alcun rischio e, ciò nonostante, possono registrare volumi mostruosi di commissioni e affari incommensurabili, perché danno suggerimenti su come trarre maggior profitto dalle speculazioni in atto sui popoli.
Si tratta, in buona sostanza, del potere mondialista, nella cui ideologia utilitarista è insita la volontà di dominio sui popoli. E’ un potere basato sulla logica del profitto, che necessariamente entra in rotta di collisione con idealità, religioni,  le diversità etniche e nazionali, ragion per cui le aspirazioni dei popoli all’indipendenza politica ed economica vanno a farsi benedire. Un “dominio” che ha per compito precipuo quello d'arrestare ogni anelito spirituale dell’uomo. Un potere assoluto che, per sua natura, tende a soffocare l’intima esigenza dell'uomo, a cercare un senso superiore alla vita nella trascendenza, nella spiritualità, nella solidarietà sociale, nel bene comune. E tutti conosciamo quanti danni ha causato il crollo di Wall Street nel 1929…
Naturalmente, questa non è solo la politica esercitata e praticata oltreoceano; anche in Europa ha preso piede - lentamente ma inesorabilmente - questa mefitica mentalità. Si può dire, ad esempio, che la nostra "unione europea" è fondata sulla lenta ed inesorabile estromissione del popolo dalla gestione della cosa pubblica. E ciò avviene in vari modi e a vari livelli: anzitutto, attraverso una competizione selvaggia che rifiuta ogni progettazione democratica dell'economia, ogni ordine morale, che fa strame di ogni sicurezza sociale, che postula il ritiro dello stato dagli stessi suoi compiti istituzionali: dal Lavoro alla Sanità, dalle comunicazioni alla Scuola, fino all'amministrazione della giustizia. Inoltre, la libera circolazione dei mezzi finanziari non confluisce su investimenti correlati ai bisogni della collettività... tutt'altro. Il capitale, si sa, corre dove lo chiama il maggiore e più rapido profitto, tanto che nelle società contemporanee, in America come in Europa e altrove, allo spirito d’impresa si va sostituendo lo spirito finanziario, proprio come paventava Keynes.
Verrebbe voglia di rivedere certa letteratura ormai messa all'indice,  eppure tanto concorde nei giudizi sul capitalismo finanziario. Mi tornano alla mente, addirittura, fra gli scritti più demonizzati, quelle pagine di LENIN sull'imperialismo come stadio del capitalismo.  Tutta roba che solo a ricordarne l'esistenza si rischia di venir lapidati non solo da destra ma pure dalla cosiddetta "sinistra". E non aiuterebbe molto insistere col proporre la tesi dello Stato sociale della chiesa, ricordando che non sono ammissibili l'abuso, la  speculazione, il trasferimento all'estero di redditi a danno dei propri concittadini  e della propria patria. Non aiuterebbe molto, perché, fra l'altro, questa che viviamo, è pure la stagione della grande intolleranza. Un'intolleranza camuffata, negata e quindi più becera, subdola, perché nessuno la avverte come tale.   E' l’intolleranza del capitalismo che non ammette la concorrenza di altri sistemi portatori di  norme etiche  e limitazioni giuridiche; l’intolleranza di chi - con estrema arroganza e cinismo - bolla gli altri sistemi come irricevibili, superati, o semplicemente antieconomici ed oltremodo onerosi; l'intolleranza dei governanti e dei partiti politici che  non ammettono i propri errori: ritardi, immoralità, omissioni, incapacità e quant'altro  di peggio a loro  carico  e danno possa essere attribuito.


                                              Il vero volto del Liberal-capitalismo in meno di un minuto


Questa altresì è la stagione della politica senza motivazioni di ordine teorico e ideale, della politica immiserita a concorso per la difesa e la conservazione di privilegi, della politica involgarita a competizioni tra odalische che sgomitano per rientrare nei serragli dei pashà del capitale ed eunuchi che tentano di estrometterle; competizioni tra corpi stremati, magari scissi, che non hanno più un'identità, né osano dichiararla. Costoro non tollerano nemmeno che ci si permetta di chieder loro dove e con chi vogliono andare.  In Italia, tutte le forze politiche (destra e sinistra) millantano ottime soluzioni   per assicurare il bene comune; non le esibiscono, non le divulgano ma dicono di averle, e ciò gli basta per chiedere a gran voce di essere preferite le une all'altre. In realtà, su un punto essenziale non si differenziano fra loro: magnificare il libero mercato e la libera concorrenza, relegando lo stato all'infimo ruolo di supplente, così come si farebbe con un semplice pivellino alle prime armi. Che poi, allo stato dei fatti, non ci siano spazi reali per la libera concorrenza ed il libero mercato…beh…questa è una questione che lor signori non si pongono nemmeno, e su cui si guardano bene di incidere come si dovrebbe. La conquista di fette rilevanti del mercato tramite la corruzione è argomento attuale che appassiona solo il lettore di cronache scandalistiche. Cosicché ormai come accade in Francia, Italia, Spagna,  quasi quasi è un argomento che annoia. Ne deriva che le inchieste giudiziarie in corso potranno soltanto favorire un ricambio interno al ceto politico-imprenditoriale dominante, nel senso che tutto potrà risolversi in una sorta di turn-over fra le ex stelle di prima grandezza ed i loro discepoli e manutengoli attualmente in “panchina”, in attesa di “entrare in campo”. Quando invece, per le abilitazioni a produrre e a competere da una parte, e per il mandato politico dall’altra, servirebbero norme tassative, severamente sanzionate e comunque inclusive di verifiche costanti, rapide e ben procedibili. Altrimenti,  corrotto e corruttore, finiti sotto processo, o  verranno "salvati", oppure  sostituiti da “galantuomini” della stessa pasta, senza dubbio più accorti e dunque più difficilmente imputabili, ma, in definitiva, senza remore concrete ad emulare le gesta dei loro “maestri” e predecessori.

Quanto prima affermato attiene al mercato solo relativamente alle sue più miserevoli patologie, ma non individua le sue caratteristiche  peculiari.  Non che truffare su opere e servizi destinati alla collettività sia peccato veniale, non che non facciano ribrezzo gli sporchi lucri su ospedali e case di riposo, su carceri fatiscenti e cimiteri lottizzati. Per non parlare poi dell'edilizia popolare, della viabilità, dei trasporti e delle tante cattedrali nel deserto che sono state erette solo per riempire il portafoglio di imprenditori senza scrupoli, avidi di denaro ed incuranti del bene comune, aggiungendo così altra carne al fuoco  del debito pubblico che, invece di estinguersi, va ad aggiungersi all’enorme mole di spreco preesistente e presente. Sono crimini aberranti che richiederebbero ben altri interventi di quelli consentiti ad una macchina della giustizia farraginosa, scarsa di operatori e con allacciamenti di fortuna.   Interventi che  difficilmente potranno essere portati a termine in modo proficuo, senza uomini e senza mezzi, le cui risorse vengono giorno dopo giorno decurtate per far fronte alla scarsità di denaro in circolazione. Del mercato, ancor più delle patologie che possono colpirlo, preoccupa il potere patogeno che esso esercita in termini di scelte produttive e di offerte consumistiche. Attraverso il mercato passa una logica di prevaricazione e di dominio da parte di soggetti che, grazie alla loro forza economica sovranazionale e allo loro sempiterna presenza nei mass-media, riescono a condizionare il mercato stesso,  piegandolo ai propri voleri. Alla  libertà di competizione produttiva e mercantile fanno da corollario la legittimazione del massimo profitto e la decolpevolizzazione dell'individualismo. E se ciascuno dispone della piena libertà e viene pure spronato nell'intrapresa di attività che servono soltanto ad assicurare rapidi profitti, tralasciando ogni aspetto che riguarda il bene comune,  si guarderà bene dal mettere a rischio capitale e futuro aziendale per prodotti nuovi correlati alle necessità effettive generali dell'oggi e del domani. Gli sembrerebbe di bestemmiare contro la razionalità economica operando nel sociale, mettendo da parte i vantaggi che deriverebbero da una completa privatizzazione di beni e servizi. Così facendo, infatti,  potrebbe andarne di mezzo anche il suo buon nome di capace imprenditore e di abile affarista, per cui appaiono normali le proteste da parte di chi chiede insistentemente di sciogliere lacci e lacciuoli, controlli e quant’altro ostruisca il libero agire.   Le sortite costose dei ricavi a medio termine erano appannaggio esclusivo dei capitani d’industria: personaggi d’altri tempi, ormai superati.  Oggi ci si fa un "nome" e si fanno grandi affari sui beni superflui, sui servizi di lusso, non certo sui bisogni primari della popolazione. E sul mercato ci si può stare attraverso le suggestioni mas-mediatiche, che inducono sempre bisogni nuovi, mai avvertiti prima, ma subito impellenti ed incomprimibili. Così inteso e protetto, il mercato genera gravi malattie: culturali, sociali,  economiche.  Non solo rimuove la centralità dell'uomo col suo lavoro, non solo instaura l'era dell' Homo oeconomicus, cancellando quella dell’Homo religiosus, ma getta alle ortiche persino il modello socialdemocratico degli anni '30. Dal modello fordista viene sottratto il sostegno alla maggiore occupazione e l'incentivazione allo stato per l'offerta  di sicurezza sociale e per i lavori pubblici; vengono confermate  la grande automazione e la standardizzazione, ma essenzialmente, per ridurre gli organici del personale qualificato, mentre i guadagni di produttività vengono sottratti  al fisco e vengono progressivamente indirizzati verso il mercato finanziario, magari in quello dei titoli di stato esentasse, non solo a danno dello spirito d'impresa, ma soprattutto contro lo Stato e i cittadini. Lo Stato, in questa maniera, si va progressivamente svuotando di ogni significato pregnante, meritando perciò la retrocessione a “statalismo”. Lo Stato, complice il familismo clientelare di certi politicanti d’accatto, viene costretto ad arretrare nei confronti dei servizi ai cittadini, facendo passare l’idea che “privato è meglio”, quando invece, alla prova dei fatti, nulla è cambiato concretamente.
diritti_umani_civili_politici03Oggi, insomma, nel nostro paese come altrove, l'assoluta libertà di iniziativa economica tende a confliggere coi diritti umani, con  la stessa crescita economica delle comunità. E se così è, la proposizione di nuove forme di organizzazione politica  è davvero urgente. Nuove forme per nuova sostanza. Nuove forme per nuove  istanze concretamente finalizzate a correggere le attuali regole economiche e procedure lavorative. Si tratta infatti di proporre un'alternativa credibile e ragionata all'arbitrio economicistico.  E, a guardar bene, non ci sarebbe bisogno di grandi sforzi creativi.  In Italia basterebbe riscoprire i valori e principi esposti nella nostra costituzione, i diritti e  i doveri socio economici che essa detta e garantisce. Ma non solo. Anche durante il vituperato regime fascista furono gettate le le basi  per una riscossa antieconomicista e soprattutto sociale dell’ordinamento statuale. Si tratta solo di avere la capacità di ammettere quanto di buono è stato fatto, scartando il resto. Oggidì invece occorre rivedere  l'ordinamento della Repubblica, non solo per quanto attiene alle funzioni del Presidente della Repubblica, delle Camere, del numero dei parlamentari, del sistema elettorale,  quanto piuttosto relativamente al vincolo, alla possibilità di revoca del mandato politico.  La nostra Costituzione, al di la di come la si voglia interpretare, è pur sempre una buona sintesi di un illuminato pensiero politico-sociale italiano ed europeo. E se si fa ricorso alla carta costituzionale si trovano già belle e pronte tutte le indicazioni utili per rispondere compiutamente alla domanda di socialità delle istituzioni e, soprattutto, della centralità del lavoro. Quest’ultimo è alla base del dettato costituzionale. Non se ne può prescindere accampando stati di necessità o di “emergenza”. Queste ultime, purtroppo, si susseguono anno dopo anno, tutti gli anni, senza soluzione di continuità, secondo un disegno inteso a reprimere le istanze sociali. Non si può disattendere un diritto costituzionalmente garantito che è alla base della nostra Costituzione. Non si può disattendere il diritto del lavoro con l’appello ad una scala di compatibilità in cui l’occupazione e le retribuzioni vengono relegate  all’ultimo posto.  Senza il lavoro non c’è società, non c’è lo Stato, non c’è cittadinanza,  non c’è libertà e, soprattutto senza un lavoro che rispetti la dignità umana, si perde persino la peculiarità di esseri umani.
Il primo fine del cambiamento verso il futuro non può non essere il recupero del diritto negato, il ripristino della centralità del lavoro. Ma se si concorda con questo assunto, si dovrà concludere che la crescita economica tanto è efficace in quanto legata alle priorità sociali. E se le misure dell’efficacia economica sono i fini sociali, balza all’evidenza che l’economia del profitto individuale (o di gruppo) di per sé confligge con l’utilità sociale perché postula violenza, alienazioni, dominio del singolo (o del gruppo) contro gli altri, dei pochi contro tutti.
Purtroppo, però, non è questa la morale corrente. Il ceto politico dominante e il popolo che lo segue, si fanno portatori di una mentalità utilitaristica ed arrivista, in cui il primo posto spetta sempre al profitto, al guadagno facile, non alle regole, o al rispetto del prossimo.
La Costituzione italiana, tuttavia, non lascia spazio alla morale corrente.
L’Art. 41 della costituzione recita:
“L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Altro che meno Stato e più privato! Altro che mercato e competizione a briglia sciolta!
Per rimanere nella legalità costituzionale, l’economia del nostro paese dev’essere soggetta a programmi determinati dalla legge. In altre parole, si richiede una politica economica che determini quale sviluppo, quali consumi, quale crescita possano e debbano essere perseguiti per l’utilità generale. Si richiede una regolazione dell’economia nel quadro politico-culturale dettato dalla Costituzione, per uno sviluppo ordinato al bene comune non soggetto alla concentrazione della ricchezza, bensì ad una democrazia realmente e  largamente partecipata. Orbene, a proposito di revisione costituzionale, i nostri cari governanti, fra cui tanti ex missini del PDL, cosa vogliono veramente? Si vuole uscire dalla violazione dei diritti e dei doveri costituzionali o si vuole cambiare la costituzione perché troppo sociale? I partiti italiani o ciò che ne rimane, vogliono fare ammenda delle violazioni costituzionali che hanno commesso, oppure vogliono eliminare le norme che pongono fuori legge il loro operato?
Io sono fermamente convinto che sia più credibile l’ultima ipotesi.
A queste domande, naturalmente, le forze reazionarie e conservatrici coerentemente oppongono le loro scatole di compatibilità, le loro “emergenze”, i loro più o meno espliciti dinieghi. Ma di fronte a queste domande, le forze che più generalmente si dicono sociali o socialiste o restano mute, perché non le intendono più, oppure danno le medesime risposte delle forze conservatrici e reazionarie o, benché vada, rispondono con gli accenti confusi dei pentiti storicamente impenitenti. E a chi le incalza chiedendo loro conto del loro nome, borbottano l’eterno “risanare per rilanciare”, oppure che c’è ripulsa storica, che  c’è un’invalidazione del termine “ socialismo” e perciò occorre far ricorso al più generico termine di “sinistra”.
Se non che Norberto Bobbio  scrisse che “l’unica certezza della sinistra è di dubitare di se stessa”.   E, a questo proposito, rincara Paolo Flores d’Arcais: “Le sinistre non sono diverse,  o almeno non sono sufficientemente diverse dalle destre,  non lo sono nel loro agire che è poi quello che in politica conta”. In effetti, i termini centro, sinistra, destra non hanno più significati e contenuti concreti o meglio stanno solo ad indicare  gli antichi serbatoi di voti. Le richieste di correggere i comportamenti politici funzionali al capitalismo mostrano chiaramente un nuovo ordine una nuova vera democrazia, per ordinare la società e lo sviluppo economico secondo l’interesse di tutti e il bene di ciascuno.
Fra la gente semplice, purtroppo, eccezioni a parte, è venuta meno la sana pratica della solidarietà sociale, di quella socialità che invita a partecipare, a sentirsi parte di un tutto. Le uniche partecipazioni  gradite oggi, se non agognate, sono quelle delle donne ai concorsi di bellezza. Il concetto fondamentale secondo cui i beni della terra appartengono al popolo in quanto destinati allo sviluppo della società umana sta venendo progressivamente meno. Per contro si fa strada la via apparentemente bella dell’egoismo del “tutto e subito”.  Oggi  il popolo ha spostato i suoi interessi, prendendo a prestito modelli individualisti e perciò stesso legati al godimento del singolo, invece che all’usufrutto della società.  Concetti alieni che non ingenerano più insopprimibili convergenze di solidarietà, bensì diventano il fulcro di quell’egoismo estraneo alla nostra cultura e alla nostra storia. Questi concetti fanno il paio con le divisioni artificiose introdotte dai nostri politicanti, i quali puntano a dividere il dissenso attorno a questioni faziose o praticamente marginali: o a coagularlo, esclusivamente per venire incontro ai propri interessi.  Quei sentimenti sono stati prima anestetizzati e poi lentamente cancellati attraverso il culto dell’individualismo, della falsa libertà, del muoversi senza scopo (o per motivi inerenti la vita stessa), del successo a tutti i costi. Non altro. In effetti - e gli uomini liberi possono dirlo - nel nostro paese, in seguito all’ingresso dello “spettacolo” nell’agone politico, si sono distrutti quei germi primigeni di quel socialismo indistinto, ante-litteram che,  seppure in sonno, albergavano fra la gente del popolo, e avevano generato il nucleo della cultura italiana. Un nucleo che si ritrovava unito nei momenti belli e in quelli brutti, che condivideva feste e lutti, gioie e dolori, abbondanza e privazioni.
Oggi, purtroppo, lo scenario è radicalmente cambiato. L'Italia non è più un paese rurale né di emigranti; e ciò non perché si sia realmente evoluto, diventando un paese realmente industrializzato, ma perché è stato espropriato della sua vera storia e delle sue tradizioni, privato della sua ricchezza ed infine umiliato attraverso una falsa unità. L'Italia è un paese al collasso, che esporta poco e importa molte cose inutili, un paese di vecchi e per vecchi...   Il popolo oggi viene convocato ad ogni scadenza alle elezioni-farsa, per dare una qualche parvenza di legalità ad un sistema di dittatura globale: la plutocrazia mondialista. Quando il popolo si sarà finalmente accorto dell'inganno "democratico" sarà troppo tardi. Il popolo dovrà - obtorto collo - obbedire se vorrà continuare a campare. In caso contrario vi sarà prima la esclusione dal sistema, (come già accade per alcuni) attraverso una procedura di lenta e graduale emarginazione; in seconda battuta, l'arresto o, per gli individui più pericolosi, finanche l'eliminazione fisica.  Una unione che postula la ritirata dello stato da ogni suo compito istituzionale, ragion per cui alla fine del processo non vi sarà neppure più la parola stato.  Il tempo, si dice, che è un "galantuomo", che, in pratica dovrebbe servire a chiarire le cose. Ma, spesso, le cose si offuscano più il tempo passa. Rimangono, cioè, nel dimenticatoio. Per converso, oggi occorre rivalutare il valore dello Stato come fulcro principale di ogni comunità umana, pena lo smembramento di essa. Lo Stato ha, come principale compito quello di coagulare le diverse esigenze e, soprattutto le diverse aspirazioni, facendole convergere  però verso un unico obiettivo: il bene comune. E, così bene inteso, il nome socialismo può essere riscattato dalle appropriazioni indebite e strumentali; usato dagli uomini liberi per significare un ordine sociale,  un modello di società da realizzare, un modello alternativo a quello dello scontro cieco, belluino, ingenerato dagli egoismi individuali; un modello da contrappore al razzismo  neo-utilitaristico della razza-padrona, che tende a perpetuare le classi sociali,  rendendole  schiave, inamovibili; trasformando i cittadini in servi,  conferendo loro l’infimo ruolo di schiavi permanenti, condannati perennemente a fornire le proprie braccia, in cambio della mera sopravvivenza.