domenica 31 agosto 2014

Affari inconfessabili


Quel giorno George Bush si lasciò andare all’emozione e le lacrime gli solcarono le guance. In visita al Museo Yad Vashem di Gerusalemme, con la kippah ebraica in testa, aveva appena domandato al proprio Segretario di Stato perché i bombardieri alleati non avessero attaccato Auschwitz durante la Seconda guerra mondiale. L’11 gennaio 2008 il Presidente degli Stati Uniti concludeva la sua visita di Stato in Israele con un pellegrinaggio al Children’s Memorial della Shoah. Ascoltando una poesia di Hannah Szenes (paracadutata in Iugoslavia per andare in soccorso degli ebrei ungheresi e fucilata dai nazisti il 7 novembre 1944), non era riuscito a trattenere la commozione. 

Condoleeza Rice, alla quale aveva riproposto uno dei tanti enigmi ancora irrisolti nella storia dell’Olocausto, gli aveva tuttavia risposto in un modo che forse non avrebbe soddisfatto nemmeno la più sprovveduta delle sue matricole all’Università di Stanford. Lo aveva fatto con freddezza, pur senza tergiversare troppo sulla cinica realpolitik che aveva informato la strategia degli Alleati durante il conflitto con l’Asse, man mano che i destini dello scontro parevano segnati: «Gli americani in quegli anni non pensavano che ciò sarebbe servito a fermare la macchina di sterminio», si limitò a dire lei.


Ma ciò che la stampa si rifiutò allora di approfondire, così come accade ancora oggi pur con un nuovo inquilino insediato alla Casa Bianca, è che il quarantatreesimo Presidente statunitense avrebbe trovato molto più facilmente in famiglia i motivi della sostanziale indifferenza dell’amministrazione USA (malgrado l’ordine imperativo di Franklin Delano Roosevelt del 22 gennaio 1944) per la pervicacia con cui il Nazismo perseguì la cosiddetta «Soluzione Finale». Documenti resi pubblici nel settembre 2004 dal quotidiano britannico «The Guardian» e dall’emittente «FOX News», benché con un paio d’anni di ritardo sulla loro declassificazione, avvenuta a sei decenni esatti di distanza dall’apposizione del segreto di Stato nel 1942. Quelle carte, riprese al momento soltanto da alcuni piccoli siti web di contro-informazione e da una terna di saggi storici sconosciuti ai più, collegano in maniera diretta e inequivocabile la stirpe dei petrolieri texani e le loro attività imprenditoriali all’ascesa di Adolf Hitler in Germania e in particolare ai finanziamenti necessari all’organizzazione e al funzionamento del Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi prima e dopo l’ascesa al potere del Führer, avvenuta il 30 gennaio 1933. Le implicazioni con il Terzo Reich della famiglia Bush (un «clan» che fra il 1993 e il 2009 ha dato all’America due presidenti per un totale di tre mandati) sono documentate e inequivocabili, pur senza aver mai avuto un’eco sui media. Cominciò a indagarle Antony Sutton nel libro «Wall Street and the Rise of Hitler» del 1975, integrato tredici anni più tardi dal volume «The Two Faces of George Bush», mentre «George Bush: The Unauthorized Biography» di Webster Tarpley e Anton Chaitkin data al 1992. I maggiori quotidiani statunitensi nonché reti televisive come «ABC», «NBC» e «CNN» hanno ignorato e tuttora snobbano queste informazioni nonostante sia ormai dal 2002 che i documenti sono ufficialmente desecretati e chiunque possa leggerli o studiarli presso la Biblioteca del Congresso a Washington o gli Archivi Nazionali di College Park (Maryland): il primo a scriverne sui giornali è stato però John Buchanan della «The New Hampshire Gazette». Pochi, ben informati osservatori si meravigliano anche del fatto che un cronista d’assalto come Michael Isikoff, storico corrispondente di «Newsweek», si sia rifiutato finora di approfondire la vicenda malgrado gli siano state offerte per due volte notizie in esclusiva. Eppure, dobbiamo proprio a lui, al suo fiuto giornalistico e al ripudio di ogni tipo condizionamento di natura politica, la scoperta dell’affaire Monica Lewinsky, quando Bill Clinton era ancora in carica come Presidente degli Stati Uniti. Meno politicamente corretta fu invece «Newsweek Polska», edizione polacca del rotocalco, che ne riferì nel numero del 5 marzo 2003 con un’inchiesta ad effetto: «Bush Nazi Past».


Ma come è possibile che il Nazismo avesse amici così influenti e i Bush non fossero un caso isolato negli USA? La ragione, più che ideologica, fu pratica: soldi, affari, business. Una volta al potere, infatti, Adolf Hitler aveva annullato unilateralmente i debiti tedeschi conseguenza delle riparazioni belliche dovute ai vincitori della Prima guerra mondiale (l’incredibile somma di sei miliardi e seicento milioni di sterline britanniche) e isolato così finanziariamente il Paese. Un isolamento non assoluto e tutt’altro che impermeabile: senza l’accesso al credito internazionale, Wall Street in primis, il Cancelliere tedesco non sarebbe stato in grado di soddisfare le richieste dell’industria militare e spingere la rinascita della Germania in Europa. E quei crediti arrivarono...

La storia cominciò o, per meglio dire, iniziò ad avere rilevanza pubblica grazie a un articolo del «New York Herald Tribune», pubblicato il 31 luglio 1941. Quel giovedì, un pezzo in copertina richiamava un servizio che sarebbe continuato sulla seconda colonna di pagina 22: «Thyssen Has $3,000,000 Cash in New York Vaults» («Thyssen ha tre milioni di dollari nei forzieri di New York»). Occhiello e testo accompagnavano una fotografia in primo piano del magna- te tedesco Friedrich «Fritz» Thyssen (1873-1951), sul quale il quotidiano si sbilanciava a firma di Jay Racusin. Quest’ultimo, un cronista tutto d’un pezzo che lavorava per lo stesso editore fin dal 1918, all’epoca quarantasettenne, era una garanzia di attendibilità: giornalista investigativo dei più scaltri, abituato a consumare le suole delle scarpe almeno quanto taccuini e matite, nel Primo dopo- guerra era stato l’unico membro del- la stampa a intervistare lo sfuggente banchiere John Pierpont Morgan, ancor oggi un’icona del capitalismo a stelle e strisce. Nel 1940, cioè l’anno precedente il suo scoop sul denaro tedesco nascosto oltre oceano, aveva smascherato una serie di irregolarità e «peccati spionistici» commessi da Gerhardt Alois Westrick, un avvocato che rappresentava alcune aziende statunitensi in Germania e che era stato nominato addetto commerciale dell’Ambasciata del Terzo Reich a Washington. Il misterioso legale ave- va curiosamente preso in affitto una suite di tre stanze al Waldorf-Astoria Hotel di New York, pur vivendo di fatto in una villetta di Scarsdale.

Nel pezzo con cui scosse quella lontana estate il «segugio» scriveva che tre milioni di dollari, probabilmente fondi neri («nest eggs») del Governo o di esponenti nazisti, riconducibili al capitano d’industria e banchiere Thyssen (già finanziatore del fallito putsch di Monaco di Adolf Hitler e del feldmaresciallo in congedo Erich Ludendorff dell’8 e 9 novembre 1923), erano depositati in un istituto di credito di New York, e ne citava il nome: la Union Banking Corporation (UBC), con sede legale e uffici amministrati- vi al numero civico 39 di Broadway. L’articolista ipotizzava anche che una mezza dozzina di corporation di diritto statunitense, attive nel campo dell’import-export e dei trasporti, in particolare marittimi, fossero controllate attraverso l’UBC. Germania e Stati Uniti d’America, nell’estate di sessantanove anni fa, ancora non erano formalmente in guerra (le di- chiarazioni in tal senso del Reich tedesco e del Regno d’Italia sarebbero arrivate soltanto l’11 dicembre 1941, quattro giorni dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor), ma la circostanza era comunque motivo di grande imbarazzo negli ambienti politici e diplomatici americani, già da tempo orientati in senso antitedesco.


All’epoca la Banca in questione non fece alcunché per smentire il «Tribune» né l’analoga notizia pubblicata in quegli stessi giorni dal «Washington Post», ma probabilmente reagì adottando un profilo basso per cercare di occultare ancora meglio i pro- pri delicati e invisibili affari. Ci riuscì molto bene, perché non accadde più nulla sino al 20 ottobre 1942, dieci mesi dopo l’inizio delle ostilità fra USA e Germania, durante i quali la Union Banking Corporation continuò ad operare come un normale istituto di credito, vendendo ed acquistando per sé e in conto terzi oro, acciaio, carbone e addirittura Buoni del Tesoro. Questo stato di cose si protrasse finché il Congresso degli Stati Uniti non decise di sequestrare la Banca e le sue azioni, riservandosi di liqui- darla a guerra finita. Il Vesting Order number 248, firmato dal funzionario Leo T. Crowley nella sua qualità di US Alien Property Custodian, ossia custode delle proprietà straniere negli USA, derivava infatti dall’applicazione al caso in questione del Trading with the Enemy Act, la legge federale approvata il 6 ottobre 1917, sul finire della Grande Guerra, al fine di limita- re gli scambi commerciali con Paesi ostili; dal 20 ottobre 1933 era peraltro vigente un emendamento, voluto proprio durante la presidenza Roosevelt, per estendere l’«Act» in parola ai trasferimenti di oro e di pietre preziose, il ché isolava ancora di più i nemici degli States sul piano finanziario. Curiosamente, l’ufficio newyorchese dello US Alien Property Custodian era a pochi isolati dal quartier generale UBC: 120 Broadway.

Ma che cosa collegava in maniera così diretta la famiglia Bush al movimento e all’investimento di capitali nazisti attraverso l’Atlantico? Innanzitutto, la ripartizione del pacchetto azionario (quattromila quote) e le cariche sociali della Union Banking Corporation, che erano così suddivise: 3.991 azioni del valore unitario di 125 dollari appartenevano a Edmund Roland «Bunny» Harriman, «chairman» della UBC, fratello minore del politico e diplomatico William Averell, già Governatore dello Stato di New York (entrambi figli del magnate americano delle ferrovie Edward Henry Harriman); quattro quote erano di Cornelis Lievense, olandese naturalizzato statunitense, presidente della società; un’azione ciascuna di Harold Pennington, che della UBC era anche tesoriere, Ray Morris, Hendrik Jozef Kouwenhoven, Johann Groeninger e Prescott Sheldon Bush

Benché titolare di una sola quota nominale della Banca, il nonno del penultimo Presidente degli Stati Uniti e padre del predecessore di Bill Clinton era di fatto l’amministratore delegato dell’istituto, il «vero banchiere», tanto più che, lavorando realmente nella capitale economica d’America, la sua firma appare in calce a numerosi atti o procure di cui ebbe la piena responsabilità sino al giorno della confisca governativa. Per uno dei tipici scherzi del destino che talvolta la storia pro- pone, negli stessi giorni in cui alcune sue proprietà venivano sequestrate in America, William Averell Harriman si trovava in Gran Bretagna come inviato di Roosevelt per discutere della guerra con il feldmaresciallo sudafricano Jan Smuts.

Nato il 15 maggio 1895 a Columbus, in Ohio, da Samuel Bush e Flora Sheldon, Prescott non aveva avuto difficoltà a farsi strada nella high society americana dell’epoca attraverso un’abile politica matrimoniale, talmente ponderata che non avrebbe sfigurato nell’Italia rinascimentale: il 6 agosto 1921 a Kennebunkport, nel Maine, aveva infatti sposato Dorothy, erede del ricco industriale George Herbert Walker, con la quale non avrebbe generato soltanto cinque figli, ma anche grandi affari tra i due «clan» familiari (naturalmente, sempre sotto l’ala protettrice degli Harriman e dei potentissimi Rockefeller). Ritornato dalla Grande Guerra con i galloni di capitano d’artiglieria e dotato di un’affascinante voce da tenore, Bush piaceva subito a tutti. Le nozze con l’ereditiera di Saint Louis e il patrimonio del suocero gli portarono anche la vicepresidenza della W. A. Harriman & Company, società che, con il nome di Brown Brothers Harriman dopo la fusione con la ex Brown Shipley di Londra, sarebbe presto diventata la più grande banca privata d’investimento del mondo: la sede principale, un tempo al 59 di Wall Street, è oggi a Broadway al civico 140. A ciò non avevano potuto non contribuire la frequentazione dell’Università di Yale, nella quale Prescott Bush si era laureato, e l’appartenenza all’organizzazione semisegreta degli «Skull and Bones»: una specie di goliardia conservatrice il cui motto, spiegatogli con allusioni politiche dalla futura ambasciatrice statunitense in Italia, Clare Booth Luce (filosofia evidentemente ancora attuale rispetto ai trascorsi della famiglia texana), grosso modo era: «Ci sono tre cose da ricordare: si prende tutto, non si spiega niente e ci si nasconde sempre».

Nel 1922 Walker e Harriman si erano recati in Germania, incontrando proprio Thyssen, per porre le basi della loro espansione bancaria e per concordare investimenti in settori dell’industria particolarmente critici, soprattutto nell’ottica di un possibile e futuro scontro bellico tra nazioni: nell’occasione frequentarono a più riprese anche l’imprenditore Friedrich Flick (nel 1947 condannato a sette anni di carcere dal Tribunale di Norimberga, di cui appena tre effettivamente scontati), il quale era il deus ex machina della Vereinigte Stahlwerke (United Steel Works Corporation in America), che si scoprì essere il principale fornitore di armamenti bellici e di materie prime alla Wehrmacht: si parla del 50,8 per cento dell’acciaio, il 45,5% di tubi e raccordi, il 41,4% dello stagno, il 38% della lamiera galvanizzata, il 35% degli esplosivi e il 22,1% per cento di cavi e cablaggi. Sicuramente, i Bush avrebbero difficoltà oggigiorno a negare di sapere chi fossero i loro soci in un’importante attività lucrativa nel cuore di Manhattan a metà del Novecento: ciò nonostante, anche le loro biografie ufficiali (ad esempio, «Duty, Honor, Country. The Life and Legacy of Prescott Bush» di Mickey Herskowitz) non ne fanno alcuna menzione. La Union Banking Corporation, sciolta d’ufficio nel 1951, comportò peraltro la liquidazione a loro favore della somma di un milione e mezzo di dollari, fortuna che deve aver giocoforza contribuito al consolidamento dei loro interessi economici nei decenni successivi e alla scalata alla Presidenza degli Stati Uniti, che negli anni Novanta e Duemila avvenne con figlio e nipote di nonno Prescott, che di suo aveva già rappresentato il Connecticut in Senato dal novembre 1952 al gennaio 1963.

Il 1951 fu un anno cruciale anche perché l’8 febbraio a Buenos Aires morì il vero proprietario di quel denaro, Fritz Thyssen, autore due lustri prima dell’autobiografico libro «I paid Hitler», scritto a quattro mani con il giornalista ungherese Imre Révész. Questa circostanza, unitamente ad altri episodi altrimenti davvero «inspiegabili», avalla oggi l’ipotesi di complicità o di un’omertà diffusa proprio in seno a quegli uffici investigativi che avrebbero dovuto vigilare sull’inquinamento dell’economia americana da parte di capitali nemici o quantomeno «sospetti», tanto più che sul finire del 1942 la UBC fu soltanto «congelata» dal Governo federale e nessuna azione penale venne mai intrapresa contro i Bush, gli Harriman o i loro funzionari di banca.

È utile aggiungere che il famoso e potente Allen Dulles, primo Direttore della CIA e incaricato dell’Office of Strategic Services (OSS) a Berlino nel 1947, era riuscito facilmente a farsi nominare consulente legale dello US Alien Property Custodian, l’autorità che aveva operato la confisca della UBC e dei suoi «asset», pur essendo l’avvocato che rappresentava la proprietà occulta della Banca e segnatamente il finanziere angloamericano Kurt von Schröder, che era il fiduciario dei nazisti per le società di Thyssen. L’8 febbraio 1943, sei mesi dopo la confisca dell’Union Banking Corporation da parte degli organi federali, in un documento del Dipartimento del Tesoro emerse che l’FBI aveva chiesto ragguagli sullo stato delle indagini contro i finanzieri newyorchesi, ma l’inchiesta si era evidentemente già instradata in un binario morto. Nei decenni successivi, del resto, emersero altri indizi sulla volontà dell’establishment americano di impedire approfondimenti in quella direzione. Silurato dal presidente John Fitzgerald Kennedy poco dopo il fallito sbarco americano a Cuba della Baia dei Porci nel 1961, Dulles riuscì a indirizzare in Sud America le ricerche sul gerarca nazista Martin Bormann del reporter investigativo Paul Manning, che si stava avvicinando troppo ai veri meccanismi che legavano i potenti degli USA e del Terzo Reich attraverso il sistema bancario internazionale. E si dice che la campagna elettorale di Richard Nixon sia stata sostenuta occultamente sempre dall’ex Direttore della CIA per evitare che il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 1968 potesse svelare il collegamento dei Dulles con il denaro tedesco, appreso fin quando era un giovane ufficiale di Marina nel 1942. John Foster, fratello di Allen e futuro Segretario di Stato, aveva poi orchestrato un disinvolto finanziamento alle acciaierie dei Krupp sfruttando il Piano Dawes [proposto dopo la Grande Guerra per sostenere l’economia tedesca nel pagamento dei debiti bellici NdR]. In tempi molto più recenti un altro esponente della stampa, l’olandese Eddy Roever, fu trovato morto a Londra nel 1996 dopo che aveva cercato di parlare con il barone Bruno von Schröder - oltretutto vicino di casa di Margaret Thatcher - per approfondire i congegni di riciclaggio dei soldi dei nazisti prima e dopo la guerra. Ma il suo decesso non sarebbe rimasto un mistero isolato.


A morire di un insolito attacco cardiaco a New York era infatti stato, all’inizio del 1948, anche il misterioso Kouwenhoven (uno dei possessori di una sola azione della banca UBC nonché eminenza grigia dei Thyssen), il quale era spaventato dalle inchieste della polizia olandese sulle proprie attività: accadde due settimane dopo l’incontro con Prescott Bush, verificatosi attorno al Natale del 1947. A raccontarlo in maniera ben argomentata in un saggio storico è John Loftus, avvocato costituzionalista della Florida, presidente onorario del Museo dell’Olocausto di Saint Petersburg e, soprattutto, ex inquirente della Sezione Crimini di Guerra del Dipartimento della Giustizia USA: nel 1994 furono lui e Mark Aarons gli autori del controverso «The Secret War Against the Jews», che procurò loro non pochi grattacapi personali (Il volume, cinquecento pagine di storia e di analisi politica, corredate da altre 120 di riferimenti biografici, dati oggettivi e fonti ufficiali, racconta le attività occulte intraprese dai Paesi occidentali contro gli ebrei e, successivamente al 1948, anche nei riguardi dello Stato di Israele).
Per inquadrare lo scenario, giova però insistere su chi fossero i soci della Union Banking Corporation in quel periodo ormai remoto, alcuni dei quali «di cittadinanza olandese o ungherese», come rammentano gli atti dell’epoca, o altrimenti imparentati con gli stessi Bush. La UBC, fondata il 4 agosto 1924 a New York, era in realtà interamente controllata da una banca straniera, la Bank voor Handel en Scheepvaart di Rotterdam, con sede al 18 di Zuidblaak: curiosamente nella pro- pria relazione ufficiale del 18 agosto 1941 l’investigatore federale Leo T. Crowley scrisse però di «non essere riuscito a raccogliere prove circa la vera titolarità dell’istituto di credito olandese», pur alludendo all’esistenza di «nominees», cioè di prestanome, che dichiaravano di non sapere a chi appartenesse veramente. Erano trascorse poche settimane dagli articoli del «New York Herald Tribune» e del «Washington Post» che avevano messo la pulce nell’orecchio alla Casa Bianca, ma lo US Alien Property Custodian concludeva l’indagine affermando che «se tutti o una parte dei fondi detenuti dalla Union Banking Corporation, o dalle società che essa amministra, siano in qualche modo riconducibili a Fritz Thyssen, l’inchiesta di questo ufficio non è stata in grado di provarlo». Nel suo rapporto del 16 agosto 1941 anche Erwin May, un altro inquirente del Tesoro distaccato alla US Alien Property Custodian, scriveva che «la mia indagine nonha raccolto evidenze circa la reale proprietà della Bank voor Handel en Scheepvaart, ma è altamente probabile che Heinrich Thyssen, fratello di Fritz, possa avere sostanziali interessi nella società».

Dopo aver ricostruito puntualmente i trasferimenti di denaro fra USA Canada ed Europa e aver individuato nell’istituto di credito di Rotterdam la loro sorgente, May era riuscito a risalire alle cariche sociali ricoperte da Hendrik Jozef Kouwenhoven nella ragnatela di attività dei Thyssen. Nel giro di poche decine di giorni Homer Jones, capo della Sezione Investigazioni e Ricerche della US Alien Property Custodian, formulava al Comitato Esecutivo la richiesta di confisca della UBC e di tutti i suoi «asset» nonché il sequestro delle quattromila azioni, da liquidare a favore dello Stato: la sua proposta non trovò però accoglimento presso le autorità preposte. Fra il 1931 e il 1933 la Banca newyorchese acquistò in oro l’equivalente di otto milioni di dollari, tre dei quali rivenduti all’estero; la sua liquidità, fra il 1924 e il 1940, si aggirò sempre attorno ai tre milioni, scendendo a uno soltanto in pochissimi periodi della propria storia; non appena fon- data, l’UBC depositò anche due milioni di dollari in contanti sui conti della Brown Brothers Harriman e si dice che abbia smerciato titoli di Stato tedeschi per cinquanta milioni.

In verità, già i semplici nomi delle persone coinvolte avrebbero potuto alimentare ben più di qualche preoccupazione prima del 1941. Iniziando dagli stranieri, spicca ovviamente quello di Lievense, il funzionario di banca domiciliato a New York in rappresentanza degli interessi tedeschi, al quale si aggiungono Kouwenhoven, emissario di Thyssen nei rapporti con George Walker e gli Harrimann in America, amministratore delegato della Bank voor Handel en Scheepvaart nei Paesi Bassi sotto occupazione nazista, procacciatore d’affari in Germania e responsabile delle finanze estere della United Steel Works Corporation (o Vereinigte Stahlwerke in Germania). E infine Groeninger, anch’egli intermediario per la UBC in Olanda e industriale del Terzo Reich. Proseguendo con gli americani, ci si imbatte in «Bunny» Harriman, azionista di maggioranza e probabilmente «fantoccio» di tutta l’operazione, visto che Bush senior ebbe a definirlo «non molto avvezzo all’attività bancaria», nonché in Harold Pennington, assunto alla Brown Brothers Harriman come semplice impiegato, e Ray Morris, partner d’affari dei capitalisti statunitensi coinvolti, tutti loro perfettamente calati nei panni delle «teste di legno». È bene precisare che la Bank voor Handel en Scheepvaart, fondata nel 1916 da August Thyssen senior, sopravvisse alla Seconda guerra mondiale e nel 1970 confluì nella Nederlandse Credietbank, in concomitanza con un aumento di capitale (i Thyssen ne ricevettero il 25 per cento, mentre la Chase Manhattan Bank ne deteneva il 31). Per la nuova holding venne scelto il nome «Thyssen-Bornemisza» e ancora oggi, se si consulta il motore di ricerca del sito del gruppo ThyssenKrupp A.G. (www. thyssenkrupp.com), sorto nel 1998 in Germania per fusione dei due omonimi colossi della siderurgia, non mancano i riferimenti all’enigmatico istituto di credito olandese: tale banca, dislocata in un Paese formalmente neutrale, pri- ma occupato dai tedeschi e poi controllato dalle truppe alleate, giocò costantemente un ruolo ambiguo fra le due sponde dell’Atlantico e tra gli eserciti in lotta. I banchieri di Rotterdam, proprio perché i Paesi Bassi mantennero uno status di neutralità, riuscirono anche a rientrare in possesso nel Dopoguerra delle loro proprietà. Cioè di quelle dei Thyssen...

August, capostipite della dinastia imprenditoriale della Ruhr, era stato così scottato dalla perdita di ricchezze subita a causa della sconfitta della Germania guglielmina nella Prima guerra mondiale che giurò a se stesso di non voler più essere vittima di ingiustizie o di «capricci» della politica. Aveva così spezzato il patrimonio di famiglia tra due dei quattro figli, Fritz ed Heinrich: il primo mantenne la nazionalità tedesca, il secondo richiese e ottenne le cittadinanze olandese e ungherese, quest’ultima agevolata dal matrimonio con la baronessa magiara Margareta Bornemisza de Kászon. In pubblico il primogenito era disprezzato dal più giovane perché affiliato al Nazismo, cui aveva aderito ufficialmente nel dicembre del 1931, ma in privato collaboravano da perfetti oci in affari e naturalmente da fratelli. L’unico inconveniente fu quello di dover recuperare a guerra finita i certificati di proprietà, sepolti nei forzieri sotterranei e ricoperti di macerie della August Thyssen Bank di Berlino, ma nel maggio 1945 i sovietici autorizzarono le operazioni di un’unità d’intelligence dei Paesi Bassi al comando del principe Bernardo van Lippe-Biesterfeld, poi consorte della regina Giuliana: in teoria lo scopo ufficiale del gruppo era la ricerca dei soli gioielli della corona olandese, per il recupero dei quali godevano di lasciapassare per scavare nel settore orientale dell’ex capitale del Reich.

Un documento ignoto ai più, che «Storia in Rete» ha ricevuto in esclusiva dall’Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis di Amsterdam («Istituto Internazionale di Storia Sociale»), reca in copertina in sequenza i nomi dei tre istituti di credito, per il pubblico e per le autorità totalmente indipendenti l’uno dall’altro, che rappresentarono attraverso l’Olanda la catena di trasmissione di finanziamenti americani ai nazisti, e viceversa: la Bank voor Handel en Scheepvaart, la Union Banking Corporation e la Von der Heydt’s Bank, quest’ultima ribattezzata in seguito August Thyssen Bank. A posteriori si è anche realizzato che fu proprio la Banca di Rotterdam, partner di Bush e soci negli States, a con- segnare il 26 maggio 1930 a Rudolf Hess il denaro (si vocifera di 805.864 marchi) necessario all’acquisto e alla ristrutturazione di Palazzo Barlow a Monaco di Baviera: l’edificio fu trasformato nella Braunes Haus, la «Casa Bruna» che fu il primo quartier generale del Partito Nazista. Su una scrivania del complesso, nello studio di Adolf Hitler, spiccava la fotografia incorniciata del cittadino americano più ammirato dal futuro Cancelliere del Reich: Henry Ford.

Conviene ritornare al misterioso signor Lievense (detentore di quattro quote della UBC, morto il 22 settembre 1949 a Ridgewood, nel New Jersey, ad appena quarantanove anni) e riepilogarne gli incarichi per coglierne l’effettivo ruolo di testa di ponte hitleriana fra i grattacieli della «Grande Mela»: era il rappresentante negli Stati Uniti della Domestic Fuel, società poi sequestrata dal Governo canadese perché sospettata di intelligenza con il nemico, e della Holland-American Trading Corporation, entrambe con sede legale al 39 di Broadway negli uffici della UBC; fu presidente e direttore della Seamless Steel Equipment Corporation; era direttore della Holland American Investment Corporation (le ultime due confiscate dalle autorità statunitensi il 28 ottobre 1942, una settimana dopo la Union Banking Corporation), nonché della August Thyssen Bank di Berlino e della N.V. Handelscompagnie Ruilverkeer di Amsterdam. Il 7 novembre di sessantotto anni fa un analogo sequestro arrestò anche l’attività della Silesian-American Corporation, multinazionale siderurgica tedesco-americana. Complessivamente, in quell’autunno di guerra, furono diciotto i clienti della Brown Brothers Harriman e della UBC le cui proprietà in America vennero «congelate» sino a tutto il 1950 perché in odore di Nazismo, comprese quelle della baronessa Theresia Maria Ida von Schwarzenberg, della cui difesa si incaricò Prescott Bush... Lievense, malgrado gli inquirenti statunitensi avessero dimostrato, registri alla mano, che praticamente tutti i fondi a disposizione della Union Banking Corporation dal 1919 in poi provenivano dalla Bank voor Handel en Scheepvaart (eccetto forse 400 mila dollari conferiti dagli Harriman), negò l’evidenza e cambiò versione più volte. Ma il «sistema» di cui era parte iniziava a scricchiolare: ad esempio, sempre alla fine del fatidico ‘42, l’esecutivo di Ottawa bloccò la Cooperative Catholique des Consommateurs de Combustible, che importava carbone tedesco in Canada in cambio di dollari. Il tutto sempre grazie alla rete di contatti americani della famiglia Bush.

Con il Vesting Order number 126, l’ufficio dello US Alien Property Custodian aveva ordinato in preceden- za (28 agosto 1942) il sequestro della Hamburg-America Line, una compagnia di navigazione di cui è stata provata la complicità nei viaggi di spie tedesche verso gli Stati Uniti prima della Seconda guerra mondiale e che incoraggiava i «veri patrioti americani» a recarsi in Germania per conoscere il Nazismo. Quando le deboli autorità della Repubblica di Weimar decisero nel 1932 di smantellare le prime milizie armate di Adolf Hitler, fu la Hamburg-Amerika-Linie (collegata alla North German Lloyd di Brema) a rendere pubblicamente noto il disegno del Governo tedesco e a farlo letteralmente naufragare. La banca di riferimento degli armatori filonazisti era la finanziaria amburghese M. M. Warburg & Co (quest’ultima, fondata nel 1798 e tuttora esistente, era paradossalmente gestita dai fratelli ebrei Paul e Max Warburg, entrambi tedesco-americani; il primo fu artefice della nascita della Federal Reserve nel 1913, il secondo collaborò con i servizi segreti di Berlino durante la Grande Guerra). Non soltanto: ogni gerarca nazista aveva diritto a viaggiare gratis con le navi passeggeri della compagnia, i cui approdi negli USA erano essenzialmente i porti di Hoboken, nel New Jersey, e New Orleans, in Louisiana. La confisca di quest’importante compagnia marittima precedette di un paio di mesi quella della Union Banking Corporation, che della Hamburg America Line era diventato l’istituto di credito per operare oltre Atlantico, scoperchiando così un vaso di Pandora la cui portata complessiva è percepibile solo oggi.

Anche la Consolidated Silesian Steel Company (CSSC), le cui azioni passarono più volte di mano negli anni Trenta, è ricollegabile a Prescott Bush. Infatti, egli figura pure tra i direttori della Harriman Fifteen Corporation, società titolare di quel terzo di quote dell’azienda non imputabili all’industriale nazista Flick: il «New York Times» aveva segnalato l’ambiguità della proprietà della CSSC già in un articolo del 18 marzo 1934. Responsabile dell’estrazione mineraria in Slesia sul confine tedesco-polacco, la multinazionale occupò buona parte della forza lavoro rinchiusa ad Auschwitz dal 17 giugno 1940 in poi per la produzione di carburante per l’aviazione. E non distante dal campo di concentramento e sterminio più famigerato del mondo sorgeva anche uno stabilimento della I.G. Farben, la maggiore industria chimica dell’epoca, per la manifattura di gomma (detta «Buna») e petrolio sintetico dal carbone, il che segnò l’inizio dell’attività delle SS e l’orrore dell’Olocausto: nel 1944 la fabbrica faceva uso di 83 mila schiavi, in gran parte ebrei, che erano ridistribuiti fra una trentina di aziende. Il pesticida Zyklon B, del quale la I.G. Farben deteneva il brevetto e che veniva usato nelle camere a gas, era fabbricato principalmente dalla DEGESCH (Deutsche Gesellschaft für Schädlingsbekämpfung), società posseduta al 42,2 per cento dallo stesso gruppo e che aveva manager della I.G. Farben nel consiglio d’amministrazione. Secondo il libro «The Crime and Punishment of I.G. Farben» di Joseph Borkin, l’azienda strinse accordi segreti con i più alti vertici delle forze armate statunitensi perché non fossero bombar- dati gli stabilimenti in Germania. Altri legami, sempre rigorosamente occulti, con la società petrolifera Standard Oil of New Jersey (oggi Exxon negli USA o Esso in Europa) avevano lo scopo di arrivare alla gestione congiunta degli impianti nei territori del Reich. Patti rispettati, perché alla fine del conflitto 93 fabbriche su cento del sodalizio nazi-americano (ad Auschwitz c’era la Deutsche-Amerikanische Petroleum A.G. o DAPAG) erano intatte...


Il giorno in cui emerse che, attraverso fondi della Standard Oil, veniva retribuito in maniera occulta il capo delle SS, Heinrich Himmler (il tutto grazie a conti cifrati alimentati dalla Schröder Bank di Colonia i cui afflussi si sarebbero interrotti soltanto nel 1944 inoltrato), scoppiò uno scandalo che determinò la caduta e forse il decesso prematuro, il 29 novembre 1942, del presidente William Stamps Farish II (il cui figlio è tuttora l’unico «privato» ad ospitare la regina d’Inghilterra Elisabella II nei suoi viaggi negli Stati Uniti). Il 25 marzo di quello stesso anno il Procuratore Generale Aggiunto Arnold Thurman aveva infatti portato in giudizio da- vanti al Tribunale di Newark il boss della Standard Oil of New Jersey con l’accusa di aver cospirato a favore del Governo tedesco e del nemico. Ipotesi di reato terribili, soprattutto in quei mesi, che ebbero però conseguenze minime per gli imputati: incredibilmente Stamps Farish e la sua azienda, fondata addirittura nel 1870 da John Davison Rockefeller, se la cavarono con risibili multe comprese tra i mille e i 50 mila dollari. E quando nel 1980 George Bush senior (genitore del Presidente che ventotto anni dopo scoppierà in lacrime nel Museo Yad Vashem di Gerusalemme) divenne Vicepresidente degli Stati Uniti, non ebbe dubbi. Assegnò al fidatissimo William Stamps Farish III, futuro ambasciatore americano a Londra tra il 2001 e il 2004 ed erede dell’ex «complice dei nazisti» nel commercio dell’oro nero, la gestione e l’amministrazione di tutti i suoi beni, che vennero appositamente conferiti in un «blind trust».

Non tutto però si può dimenticare o nascondere con l’affidamento fiduciario a un amico di vecchia data. Così la Croce all’Ordine dellAquila Tedesca, onorificenza voluta personalmente da Adolf Hitler nel 1937 per gli «stranieri meritevoli» e attribuita il 7 marzo 1938 a Prescott Bush da Otto Meissner nella sua qualità di Segretario di Stato della Germania, fa bella mostra di sé ed è tuttora conservata negli archivi del Dipartimento della Giustizia a Washington, anche se non proprio accessibile a chiunque. Sì, perché il capostipite dei Bush, insieme con l’aviatore Charles Lindbergh, l’industriale dell’automobile Henry Ford e il fondatore del gigante dell’informatica IBM, Thomas John Watson, fu uno dei rarissimi cittadini americani a esserne insignito da parte del Terzo Reich...

Gabriele Testi
gabrieletesti@hotmail.com

Articolo estrapolato dal n°52 del periodico mensile "Storia in Rete", apparso in edicola l' otto Febbraio 2010. 

martedì 12 agosto 2014

Cosa accadde veramente nel 1929 negli USA

Nel consigliare la lettura di un libro oltremodo interessante (richiedibile qui: http://www.edizionidiar.it/coogan-gertrude/i-creatori-di-moneta.html), è d'uopo pubblicarne un interessante estratto al fine di mettere in luce una delle pagine più nere della storia economica mondiale: la crisi del 1929. Il libro in questione è: “I creatori di moneta”, scritto da una sconosciuta  quanto sottovalutata economista americana.  Gertude M. Coogan, infatti,  racconta, con dovizia di particolari, cosa avvenne prima e, soprattutto,  dopo la grande crisi del 1929. 


IL GIORNO DELLA RESA DEI CONTI

I primi brontolii di tuono cominciarono a udirsi nel settembre 1929. Il fallimento della ditta Hatry a Londra nel settembre di quell’anno scatenò da parte di fonti estere “ben informate” una consistente vendita di titoli. Naturalmente, quelle fonti non potevano essere i banchieri internazionali, che erano in grado di conoscere il giorno e l’ora in cui sarebbe avvenuto un terribile crollo. Per tutto il mese di settembre e sino alla terza settimana di ottobre, mentre alcuni titoli raggiungevano nuove quotazioni record, vi furono massicce liquidazioni. I venditori europei di titoli li convertirono in denaro liquido e trasferirono all’estero i loro depositi, L’oro cominciò ad affluire in Europa.

Il 24 ottobre 1929, alle 11 in punto, centinaia di azioni in centinaia di emissioni vennero poste in vendita “sul mercato”. Sarebbe stato molto strano se si fosse trattato di una semplice coincidenza. Era assai insolito che migliaia di persone avessero deciso di vendere nello stesso istante. Era anche strano che tutti costoro avessero deciso di vendere “sul mercato”. Gli investitori inesperti non piazzano ordini “sul mercato”. Questa è un’operazione che sanno compiere solo le “vecchie volpi”, ovvero gli internazionalisti e i loro accoliti, sul genere degli speculatori che agiscono come consiglieri del Governo e affermano che “gli speculatori devono essere nel giusto”.


Gertrude M. Coogan
Il crollo del mercato continuò giorno per giorno. La nuova èra era finita. Gli internazionalisti avevano ristretto la fisarmonica monetaria. Erano stati loro stessi a gonfiarla d’aria e adesso spettava a loro il privilegio di sgonfiarla. Non avevano alcun dubbio di informare il signore o la signora Smith che essi avevano deciso di bloccare il credito. In fin dei conti, era un loro privilegio restringere il volume delle promesse di pagamento (prestiti) in circolazione, esportare l’oro al di fuori del paese e far crollare l’intera struttura della moneta e dei “prezzi”.


Non erano stati loro ad espanderla? Era il loro strumento, in modo “legale”; essi avevano il permesso esclusivo di servirsene a loro piacimento e per il loro personale profitto.
Come sapete, gli imprenditori hanno uno spiccato senso del dovere. Si assumono la responsabilità di costruire grandi fabbriche, di favorire la scienza e il progresso tecnico e di far sì che gli esseri umani meno intraprendenti di loro possano disporre di ciò che è fisicamente necessario per vivere. Tali ideali sono troppo elevati e se gli imprenditori non fossero tenuti a bada, entro poco tempo i lavoratori conquisterebbero una grande indipendenza; questi ultimi infatti, se hanno un lavoro assicurato e retribuito con alti salari, possono accumulare in breve tempo delle proprietà. E’ quindi necessario che i supremi custodi della Nazione, i banchieri internazionali, smorzino gli entusiasmi di questi imprenditori sinceri e laboriosi.
Gli imprenditori, gli agricoltori e i lavoratori americani continuarono a lottare. Quasi ogni giorno, un cosiddetto leader proclamava enfaticamente che l’America era fondamentalmente sana e che una campagna per favorire l’acquisto di titoli avrebbe risolto i problemi della Nazione. Siate patriottici: comprate adesso. Dopo tutto, non c’è nulla che vada male! Manca solo la fiducia. Occorre ripristinare la fiducia. Tutto il ciclo congiunturale si basa – in sostanza – sulla “fiducia” (fiducia malriposta, purtroppo). I cicli congiunturali si verificano perché, per qualche ragione “misteriosa”, la popolazione, in vaste proporzioni, perde improvvisamente “fiducia”.

Comunque, l’unico vero mistero è il motivo per il quale non si è mai detta la verità al popolo, e la verità è che la nostra stessa moneta (nella misura di oltre il 95%) [oggi al 100%, n.d.r.] è basata sulla fiducia; è un fatto puramente psicologico. Essa esiste quando lo vogliono alcune menti e scompare in modo analogo.



Venne convocato il consigliere dei Presidenti [Bernard M. Baruch n.d.r.]. Egli era già stato il “consigliere” dei Presidenti Wilson, Harding e Coolidge e ora era il consigliere del Presidente Hoover. E’ strano che, con tutta la sua “grande conoscenza dell’economia e della finanza”, egli non consigliasse il Presidente Wilson di emettere in modo corretto una nuova valuta onesta, costituzionale e senza interessi, che recasse impresso il sigillo del Governo degli Stati Uniti. Se egli, nella sua “grande saggezza”, lo avesse fatto, l’America non avrebbe mai subito la drastica caduta dei prezzi agricoli che venne provocata nel 1920 né avrebbe mai avuto quel “problema agrario” di cui egli si occupa così spesso sulla stampa “rispettabile”.
Questo consigliere riferisce che dal 1921 ha concentrato le sue risorse mentali sulla “soluzione” del problema agricolo: le sue parole devono avere influito su gran parte della legislazione approvata per “soccorrere” gli agricoltori, dato che il suo parere era “richiesto dai Presidenti”. Certamente i suoi amici colsero i frutti del suo lavoro. Gli agricoltori sono soddisfatti di questi risultati? I documenti mostrano pure che dal 1920 il “consigliere” ha esercitato una notevole influenza sulla legislazione approvata per “regolare” gli scambi di beni che sino a quell’anno avevano funzionato in modo eccellente per gli agricoltori.


Fu anche strano che egli, nonostante le sue vaste conoscenze, non mettesse in guardia il Presidente Coolidge dal concedere prestiti internazionali svantaggiosi. Vista la sua grande conoscenza dei movimenti monetari internazionali, avrebbe dovuto sapere che stavamo semplicemente sottraendo risorse alle regioni agricole comportandoci in modo davvero magnanimo sullo scenario internazionale: producevamo beni e ne finanziavamo la vendita ai paesi stranieri, sottraendo al nostro stesso popolo il denaro necessario al loro acquisto.

A quanto pare egli non consigliò il Presidente Coolidge nell’agosto del 1927, quando il Consiglio di Amministrazione della Riserva Federale decise di aumentare la pressione e di sospingere un mercato azionario febbrile verso livelli sempre più alti. Vi erano numerosi uffici statali che raccoglievano statistiche per lui, ed egli doveva certamente sapere che molti titoli venivano venduti per un valore molto superiore a quello degli utili delle loro corporations. Oltre agli efficienti servizi statali, egli avrebbe potuto consultare il dottor Goldenweiser, direttore delle ricerche del Consiglio di Amministrazione della Riserva Federale. Questo funzionario capace avrebbe potuto fornirgli numerose statistiche che mettevano in evidenza i pericolosi sviluppi futuri.

Calvin Coolidge
Naturalmente, a quell'epoca, tutti si chiedevano se gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di emettere certificati azionari tanto rapidamente da soddisfare la grande richiesta. Forse egli stava consigliando il Presidente  Coolidge sul modo in cui le tipografie e le industrie grafiche avrebbero potuto sfornare questi certificati in modo abbastanza rapido. Negli stessi scritti del “consigliere dei Presidenti” si rende noto al pubblico che egli uscì dal mercato azionario prima del crollo dell’ottobre 1929. E? strano che non abbia informato della sua sensazione di incertezza il Presidente Hoover. E’ strano che, se sapeva vendere oculatamente i suoi titoli, non abbia informato il Presidente Hoover che vi era qualcosa di “fondamentalmente sbagliato”. Se avesse capito, il Presidente Hoover non avrebbe ripetuto così spesso che “l’America è fondamentalmente sana” o che “la ripresa economica è imminente.”
Se il “suo consigliere” lo avesse avvertito, il Presidente Hoover non avrebbe mai commesso il grande errore di convocare una “conferenza economica” nel gennaio del 1930, nel corso della quale invitò gli imprenditori a continuare a investire denaro nell’ampliamento degli impianti industriali. Alcuni onesti imprenditori seguirono l’esortazione del Presidente e il prezzo che pagarono per la loro cooperazione fu la perdita delle loro imprese.
Eppure, questo stesso consigliere continua imperterrito a consigliare il Presidente. Egli – si afferma – è il “Presidente non ufficiale” di questa amministrazione. Noi cambiamo i Presidenti, ma non i consiglieri. Gli americani dovrebbero porre alcune domande al prossimo candidato alla Presidenza e cercare di cambiare i consiglieri.

Gertrude Margareth Coogan – I creatori di moneta

mercoledì 30 luglio 2014

Il tramonto dell'Occidente - parte seconda -

Liberalismo e Democrazia


liberalismo
    A questo punto occorre soffermarsi un poco sul rapporto fra  liberalismo e democrazia, al fine di riflettere sulla tesi consolidata che la "liberal democrazia" sia il compimento del primo in conseguenza, anzitutto,  del passaggio dal suffragio ristretto al suffragio universale. In effetti, il legame trai regimi liberali e quelli democratici è evidente e sostanziale. Non si può parlare, cioè,  di un'astrusità concettuale, di un connubio innaturale. Al contrario.
   Gli uni infatti (i regimi liberali) hanno trasmesso agli altri (i regimi democratici): le libertà civili e politiche, le costituzioni, le istituzioni parlamentari, la divisione dei poteri, la convinzione che il loro fondamento sia la partecipazione attiva dei cittadini come individui sulla base di diritti inalienabili. L'idea della continuità e della contiguità tra i due tipi è stata rafforzata, in maniera quanto mai vigorosa nel corso del Novecento, dalla loro contrapposizione sia ai modelli utopistici di democrazia diretta (vedi attuale il caso dei cinque stelle) sia ai regimi autoritari e totalitari di destra e di sinistra.
Ma vien da domandarsi, tornando alla domanda già posta: se nei sistemi che continuiamo a definire "democratici" non siano intervenuti, negli ultimi lustri, mutamenti tali che autorizzano a pensare che essi formino entità che richiedano l'elaborazione di nuove categorie per definirli con le seguenti conclusioni.  Per spiegarvi ciò, farò riferimento a tre tipi di sistemi, per poi sottoporli ad una sommaria analisi comparativa.
  1. il Sistema "tout court" Liberale, quello che è stato definito più propriamente come "Liberalismo Conservatore", a suffragio fortemente ristretto, poggiante su partiti di notabili;
  2. il Sistema Liberal Democratico, basato sul suffragio notevolmente allargato, incentrato sulla competizione tra partiti permanentemente organizzati, i maggiori dei quali a base di massa, divenuti i principali strumenti tanto della formazione e dell'orientamento dell'opinione pubblica, quanto dell’azione politica nei processi parlamentari;
  3. il Sistema Liberaldemocratico di ultima generazione, basato sul suffragio universale (ossia quello in cui ci troviamo noi oggi), nel quale i partiti rimangono si i soggetti istituzionali della competizione elettorale, dell'azione politica in generale,  ma la loro struttura risulta notevolmente mutata insieme con le tecniche attinenti all’organizzazione del loro rapporto con le basi di riferimento e alla “formazione” dell'opinione pubblica.
Della massima importanza sono inoltre due altri aspetti:
  • il sistema liberale di primo tipo (il sistema liberale classico)
  • quello del secondo tipo operante nell’ambito di singoli stati in grado di esercitare in maniera efficace la propria sovranità.
Su che cosa però? Su quelle che si presentavano essenzialmente come economie nazionali, pur nel quadro, naturalmente, del commercio internazionale, delle relazioni fra i vari stati e del libero mercato.
Viceversa, nel sistema liberaldemocratico odierno, ha visto e ancora vede gli Stati perdere in misura sempre maggiore, in rapporto al passare del tempo,  il proprio potere decisionale nei confronti dell’economia che ha assunto le caratteristiche dalla globalità. Ed è controllata in misura crescente da ristretti centri finanziari e industriali sovranazionali,  i quali, senza alcuna legittimazione democratica e, di fatto, senza più alcuna sottomissione sostanziale alla tradizionale sovranità dei vari stati nazionali, hanno assunto nelle proprie mani quel potere fondamentale di dislocare la produzione, la distribuzione delle risorse economiche e non solo…
L’altro aspetto assai trascurato ma non per questo meno importante è che la formazione dell’opinione pubblica in precedenza affidata si a mezzi di informazione che erano “sensibili” all’influenza dei cosiddetti “poteri forti”, ai “Think Tank” culturali, intellettuali ecc.,  è ormai controllata in misura sempre più massiccia da gruppi di plutocrati internazionali che esercitano, in questo ambito, un ruolo analogo a quello in campo industriale e finanziario, tenuto dalle oligarchie finanziarie e industriali.
Ma vengo a ragionare adesso brevemente su ciascun tipo di sistema.

Il primo tipo (vero sistema  liberale classico) era caratterizzato da questi principali elementi.
  1. Come è noto era il prodotto della vittoria politica, della società civile e borghese (andrebbe indagata a parte il concetto di società civile) appoggiata dai settori liberaleggianti dell'aristocrazia relativamente progressista, nei confronti dello stato assoluto. 
  2. in esso le costituzioni, con la separazione dei poteri, l'esercizio delle libertà politiche e civili,  costituivano la garanzia che lo stato mantenesse il ruolo, non già di padrone arbitrario, ma di regolatore legittimo secondo i principi della legalità istituzionale, proteggendo quindi la società dalle prevaricazioni del potere. 
  3. il suffragio ristretto rispondeva all'esigenza di mettere al riparo i possidenti, dal temuto assalto delle classi “pericolose”, di affidare la partecipazione politica, il controllo del potere agli individui dotati degli strumenti necessari per dare al voto il significato, non soltanto di mezzo di difesa degli interessi economico sociali, ma anche di manifestazione di una concreta capacità politica.
Il concetto di fondo che stava alla base può essere così espresso: la piazza della politica deve essere occupata da quanti posseggono l'insieme delle risorse materiali e intellettuali (culturali) che sono in grado di renderli (proprio in virtù di questo connubio di risorse) capaci di autodeterminazione; la piazza della politica deve essere altresì occupata da chi governato può diventare lui stesso governante;   da chi conosce l'ordine del giorno delle questioni in gioco ed è in condizione d'influire direttamente o indirettamente sulla formazione di quest'ultimo. Questo punto è stato chiarito in modo esemplare da Benjamin Constant.
In caso contrario, i soggetti sono da considerarsi eteronomi a vario titolo. Alla base della limitazione del suffragio pesavano in maniera massiccia gli interessi di classe, ma contava anche e molto la volontà che i soggetti della politica possedessero i requisiti necessari per essere attivi in posizioni e in gerarchie si diverse, ma non tali da creare barriere di esclusione per quanti costituivano la società politica e il suo bacino sociale.
Da sottolineare, dunque, in questo sistema, la sostanziale coincidenza tra la società politica e quella parte di società civile che sosteneva il processo politico in generale. La sua legittimazione ideologica poggiava, perciò, sulla contrapposizione dei diritti del cittadini in grado di essere attivo e consapevole, ai generici diritti universali dell’uomo. Si trattava del sistema che poi la critica socialista ha definito: liberalismo borghese. Esso aveva come ambito gli stati nazionali, i quali esercitavano la loro sovranità. E qui bisogna badare agli aggettivi della sovranità, alla loro combinazione…(giuridica politica, economica e militare) entro i confini del loro territorio.   La sovranità monetaria, come ha sottolineato più volte Giacinto Auriti, era già stata scalfita con la creazione della Banca D’Inghilterra, che diede la stura al processo d’indebitamento sovrano che oggi ben conosciamo.  Questo ultimo punto è stato chiarito in modo magistrale dal compianto Prof. Giacinto Auriti. occorre aggiungere, seppure per inciso, che tale modificazione strutturale, non avvenne in modo immediato ma, al contrario, in modo assai progressivo, ragion per cui tutto questo risulta ancora oggi incomprensibile ai più...
Tale sistema, mentre, per un verso, si qualificava in conseguenza del suffragio ristretto come un sistema di oligarchia allargata, per l’altro, nei limiti di quella componente del demos che lo sorreggeva, era dotato di un alto tasso di democrazia, tanto da poter essere definito, in una maniera che può apparire paradossale, si un’oligarchia, essendo le masse popolari escluse in tutto o in parte dal processo politico, ma una “democrazia”  operante, per quanto atteneva alla sua realtà interna.

Il secondo tipo di sistema, ovvero, quello liberaldemocratico, sviluppatosi in Europa sempre più pienamente tra l’ultimo Ottocento e l’avvento della globalizzazione, ha costituito insieme il compimento e l’alterazione del sistema liberale di primo tipo.  Il compimento in quanto i meccanismi istituzionali fondamentali sono passati dall’uno all’altro. Il suffragio ha conosciuto un allargamento (fino a diventare universale) che però, proprio per questo ha svilito il carattere meritocratico che in un certo qual modo poteva esser presente nell’oligarchia. L’alterazione in quanto in luogo di un bacino sociale non certo omogeneo ma poggiante non di meno sul comun denominatore costituito dalla prevalente combinazione di Proprietà e istruzione, il sistema è venuto a basarsi su due  bacini sociali diversi e persino in opposizione. L’uno costituito dai proprietari, dai titolari di redditi elevati dei ceti istruiti, l’altro dalle masse dei non proprietari  della città e della campagna in maggioranza poco o per nulla scolarizzati. Inoltre ha contribuito fortemente all’alterazione, poiché all’individualismo forte, proprio del sistema liberale di primo tipo,  nel quale, non a caso, i partiti dominanti erano  raggruppamenti il cui nucleo era  formato da notabili, è andato gradualmente sostituendosi un individualismo debole, in corrispondenza con la discesa in campo dei i cosiddetti partiti di massa, divenuti essi stessi i soggetti primari del sistema parlamentare basato sul  suffragio allargato universale, così che la democrazia assunse (come  ebbe a notare plasticamente Hans Kelsen) il carattere di uno Stato di partiti.  Di partiti diretti da élite ristrette, poggianti su quadri di professionisti della politica, preposti ad organizzare i loro membri, ecc..
In questo quadro, mentre il suffragio universale rendeva formalmente tutti gli individui soggetti dell’azione politica, in pratica, i veri soggetti diventavano i partiti che assumevano nelle loro mani il monopolio dell’azione politica.  Ecco la degenerescenza del sistema liberale classico, ossia quello ben descritto da John Stuart Mill.  In quel sistema l’individuo istruito, capace di consapevolezza politica, ed in grado di giudicare i programmi in maniera indipendente, senza cadere vittima di qualsivoglia strumentalizzazione e, soprattutto, della demagogia, cede il passo al cittadino eterodiretto, di cui parlava Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto.
La compresenza nei sistemi liberaldemocratici di bacini sociali, non solo diversi, ma, a volte, in violenta contrapposizione, ha reintrodotto in vari paesi il rapporto tra le forze sociali legittimate a governare e quelle non legittimate (le classi pericolose); il che ha costituito, nel corso del XX secolo,   uno dei fondamenti delle crisi organiche dei sistemi liberaldemocratici oppure delle anomalie che hanno di fatto bloccato tali sistemi. Tra i più importanti elementi di continuità tra il sistema liberale classico e quello democratico vi era anzitutto il dato che lo stato nazionale manteneva il potere decisionale su tutta l’economia; poiché allora vi era  un’economia che vedeva collocati sul suo territorio i centri finanziari, le imprese industriali e agricole e, in genere, tutto il sistema volto a provvedere ai fabbisogni della popolazione. Da ciò veniva la possibilità per lo Stato di far valere -  se necessario –  il potere politico sui sottostanti centri di potere economico, per cui, appunto, le politiche economiche si configuravano come le politiche statuali e nazionali. E in ciò stava una delle sostanze forti del potere Sovrano!
Il terzo ed ultimo tipo di sistema su cui vale la pena di soffermarsi  è un sistema nel quale  i presupposti della democrazia liberale appaiono profondamente erosi. I principali elementi di questa crisi che si presenta, per molti aspetti, come dissoluzione, l'indicherei come segue:
 
  In primo luogo: l'individuo consapevole dei propri interessi, dotato delle risorse culturali per comprendere l'ordine del giorno politico, per arricchirlo con la propria partecipazione, per sottoporlo a verifica critica, per dare un voto autonomamente deciso, per controllare i suoi rappresentanti in parlamento e, mediante essi,  il governo,  appare, sempre più, come una specie in estinzione.
 
   In secondo luogo: sono entrati in un’agonia (che pare irreversibile) i grandi partiti di massa organizzati, i cui maggiori prototipi erano stati in Europa i grandi partiti socialisti, comunisti e democristiani. sicché la stessa definizione di Kelsen, degli stati democratici come stati dei partiti,  ha perso di significato.

   In terzo luogo è venuta meno l’economia nazionale. La stessa che Weber indicava come il fondamento materiale necessario degli stati nazionali  e del loro potere sovrano. E del fatto che questi stati potessero esercitare e, a maggior ragione,  avere un carattere “sovrano”.
L’economia nazionale è stata soppiantata da un SISTEMA economico globale, dominato da ristrette cerchie di finanzieri industriali, le cui decisioni non solo largamente si sottraggono al potere sovrano degli stati, ma, spesso, sempre più, vengono, letteralmente, IMPOSTE agli Stati! E non solo agli Stati piccoli e medi... Quelle che potremmo definire come le residue economie nazionali si presentano in misura via via maggiore come sotto sistemi locali.  Tra  gli stati,  i loro governi, i parlamenti e sistemi politici nazionali  da un lato, e le oligarchie sovranazionali dall’altro,  è dunque venuto a crearsi uno iato che disconnette via via più fortemente i due termini, con la conseguenza che il processo democratico, anche quando, per ipotesi, al massimo della sua effettività, nei singoli stati, non è in grado di influire con efficacia sull’agire e sul potere potere decisionale dei grandi potentati economici mondiali.

   In quarto luogo: la formazione dell’opinione pubblica è sempre più un prodotto pianificato  e “confezionato” con le tecniche della pubblicità commerciale e controllato - nell’era della rivoluzione informatica - dai Tycoon dell’informazione di massa, che operano  a livelli internazionali, in parallelo,  in sintonia e, in molti casi, in  condizioni di compartecipazione proprietaria con gli oligarchi della finanza e  dell’industria, esercitando quella che è stata definita dal prof. Giovanni Sartori, come “videopolitica” o, volendo usare un termine ancora più radicale, “videocrazia”.

   In quinto luogo,  la tradizionale separazione dei poteri, elaborata dalla dottrina liberale, cardine delle libertà, in cui Montesquieu pronuncia quella memorabile frase: “occorre che il potere freni il potere…”  (la libertà è figlia di questa frase),  di fatto non esiste. Quindi la parola chiave non è “separazione” dei poteri… ma, positivamente,  l'equilibrio, (il delicato rapporto funzionale) il controllo del potere. Occorre che non ci sia mai alcun potere che prevarichi sugli altri.  Se no… son guai! Qui stiamo invece di fronte ad un continuo svuotamento dei poteri, tant’è che dobbiamo riflettere non è un caso che uno dei primi atti che “legittima” (o meno) la formazione di un governo è la sua “quotazione in borsa”, vale a dire il gradimento o meno di un determinato governo da parte della Finanza Internazionale. Ciò non è una provocazione ma la semplice constatazione della realtà. In tutto ciò sta il fondamento primo dello svuotamento della sovranità degli stati,  i quali sono stati ridotti a stati amministrativi, ovvero a organi regionali dell'ordine economico politico e civile, proni alle direttive delle oligarchie plutocratiche mondiali. Per questo occorre ridisegnare la mappa tradizionale del potere, che oggi appare dunque obsoleta.

Sic res stantibus,  ecco l’interrogativo che si impone con forza  e a cui non è possibile sfuggire: qual è, in queste singolari circostanze, la condizione attuale del cittadino democratico? Il cittadino nei sistemi liberali ottocenteschi, era assai più attivo e influente di quanto non lo sia oggi. Lo era anche il cittadino nello stato dei partiti... poiché allora, nonostante tutto il male possibile, i partiti coinvolgevano attivamente i loro iscritti, in maniera permanente nel processo politico, davano un'ideologia, mobilitavano le campagne elettorali, con un rapporto diretto di partecipazione tra i partiti e la loro base di riferimento.
Oggi, invece, il cittadino è stato ridotto essenzialmente alla stregua di un consumatore passivo del processo politico, in sintonia con la figura del consumatore di un qualunque bene economico. A loro volta i partiti hanno subito una trasformazione epocale: il partito organizzato di massa,  sorto e sviluppatosi in Europa,  sta scomparendo e quello che ne resta sono dei meri elementi residuali senza alcuna incidenza politica. Nulla sparisce all'improvviso ma piuttosto si trasforma, cambiando impostazione e funzioni. e si va ovunque imponendo un modello di partito  centrato ed impostato sulla figura carismatica di un leader. In pratica si afferma un Partito della Persona. Un modello di partito che si adatta alla logica e ai meccanismi del mercato, così da affiancare al mercato economico, un omologo "mercato politico", dove al cittadino rimane la funzione di inserirsi o meno nel gioco della domanda e dell'offerta, "comprando o non comprando" "prodotti" che gli sono stati proposti dalle oligarchie dominanti ma su cui non ha alcuna funzione determinante.  Altro tratto caratteristico è la tendenza alla personalizzazione dei partiti secondo il disastrato modello americano. Difatti assistiamo sempre più a partiti o raggruppamenti che portano il nome di questo o di quello, senza alcuna valenza ideale, ma, anzi, sostituendo l'ideale con il "personale" e facendo passare quest'ultimo elemento come una sorta di "benedizione"... In questo clima parossistico di personalismo rivestono un ruolo di primissima importanza le cosiddette lobbies che influenzano e determinano la composizioni degli schieramenti. Al momento del voto al cittadino rimane una sola opzione: mi piace o non mi piace, prendendo a prestito la fumosa terminologia arcinota agli amici di Facebook.

In questo stato di cose, si rimane in un meccanismo bloccato e perciò nient'affatto democratico. Sbaglia dunque chi critica il Sistema: la democrazia. Ha ragione, viceversa, chi critica QUESTO SISTEMA.Ossia un SISTEMA di governanti NON ELETTI, controllati da Grandi Lobbies finanziarie. Questi funzionari, emetteranno LEGGI SOVRANAZIONALI, a cui i rappresentanti eletti dal popolo, scelti prima dalle oligarchie, dovranno sottostare se vorranno avere la loro minuscola parte di potere.

QUESTA è la VERA TRUFFA propalata agli elettori ignari della UE e fatta passare come una CONQUISTA per la pace europea. Ha un senso continuare a definire democratici questi sistemi?  Io credo di no. Nulla può tanto danneggiare la democrazia e contribuire alla marcia verso la sua dissoluzione quanto l’accettazione acritica di questo sistema così come è. Se la democrazia deve avere un futuro è necessario che essa scopra le strade per un vero rinnovamento. Il miglior viatico per un vero rinnovamento democratico è quello tracciato dal compianto Prof. Giacinto Auriti attraverso l’attuazione concreta del suo programma sulla Proprietà popolare della moneta, teso ad assicurare giustizia per tutti e, indi, ad attuare in modo sostanziale la sovranità monetaria.
©  ♚Pierre

sabato 7 giugno 2014

Le Radici Giacobine dei Totalitarismi

Stalin_Hitler_photomontage   La maggior parte del pubblico si è stupita di fronte all'avvicinamento tra Stalin e Hitler. Ci si sarebbe stupiti meno se si fosse mantenuta una visione d'insieme degli avvenimenti di questi ultimi venti anni che, da Brest-Litovsk (1) fino ai recenti incontri di Mosca passando per Rapallo, il proseguimento della politica di Rapallo (2) dopo I 'avvento di Hitler e l'immobilità di Stalin dinanzi ai fatti di Monaco, offrivano segni certi. E ci si sarebbe stupiti ancor meno se si fosse prestata più attenzione agli elementi comuni nella genesi e nelle strutture dei movimenti e degli Stati totalitari, quale che sia il loro colore: rosso, bruno o nero.
   Certo si sono sottolineate spesso le affinità tra bolscevismo, hitlerismo e fascismo; ma non si è mai spinto a fondo lo studio fino ad afferrare il vero principio di questa comunanza di caratteri.
   Quando si decide veramente di intraprendere questa ricerca, si scopre che se questi movimenti  e regimi sono così vicini gli uni agli altri ciò è dovuto al fatto che essi hanno una provenienza comune: derivano tutti dal giacobinismo.
   Sì, il legame profondo tra i regimi tedesco, russo e italiano di oggi consiste in questo, che essi discendono tutti in linea diretta dal precedente francese del 1793.
   Ecco ciò che stupirà alcuni spiriti, ma in ogni caso non gli spiriti storici. Ché questi ultimi sono abituati, almeno quando hanno anche spirito filosofico, a non fermarsi alle diversità superficiali che presenta I 'attualità, ma a seguire
i legami profondi delle cose. In queste profondità essi vedono che lo spirito e la forma essenziale di certe istituzioni si propagano attraverso regimi lontani nel tempo e separati solo da apparenze senza importanza.
   I più stupiti e i più scandalizzati da questa tesi saranno gli hitleriani e i mussoliniani, che hanno mosso le critiche più aspre al 1789 e che hanno preteso rompere completamente con quella eredità.
Ma il 1789 non è il 1793. L'89 tu liberale, sebbene abbia ceduto il posto, almeno per qualche tempo, al'93, che fu  giacobino e totalitario.
     E ciò che occorre far notare subito anche ai democratici francesi, che saranno non meno disgustati da questo accostamento. Anch'essi hanno dimenticato la distinzione tra 17891793. Ciò è comprensibile dato che, come abbiamo dimostrato altrove, non essendo stata guidata da una concezione sufficientemente chiara del liberalismo, la prima rivoluzione del 1789 degenerò subito nell'autoritarismo, e in tal modo essa condusse logicamente verso la seconda rivoluzione del 1793, totalitaria. Inoltre nei regimi del XIX secolo (Restaurazione, Monarchia di Luglio e Terza Repubblica), che cercavano di ispirarsi al 1789 piuttosto che al 1793, le tendenze inveterate del 1793, fissate dalle istituzioni imperiali, sono sempre riapparse e hanno sempre impedito che si stabilisse in Francia un regime decisamente liberale come in Inghilterra.  In tal modo la democrazia francese presenta uno strano groviglio di pratiche liberali e di pratiche autoritarie e sotto l'apparente libertà e anche licenziosità dei costumi politici si vede sussistere un apparato quasi dittatoriale, che si rimette a funzionare per così dire automaticamente in caso di scompiglio interno o di pericolo esterno.
   Non è men vero che anche in coloro che si credevano fedeli o indulgenti al ricordo del'93 gli autentici caratteri della rivoluzione e del governo dei Giacobini sono talmente deformati ed edulcorati, che si spiega molto bene l'incapacità nella quale si trovano oggi loro discendenti francesi di riconoscere come cugini i rampolli  feroci che la storia ha dato, fuori della Francia, ai  "grandi antenati".
Tentiamo la dimostrazione.

Quali sono i caratteri principali del rodimento giacobino che nel 1792 spazza va tutti gli elementi del liberalismo in gestazione?
  1. Si concepisce ana dottrina sommaria che si presenta al popolo ridotta ad alcune parole d'ordine ancora più sommarie, brutali. L'essenziale della dottrina giacobina consiste semplicemente in ambito politico nell'autogoverno del popolo, in ambito sociale ed economico nell'abolizione  dei privilegi, in àmbito religioso nella separazione della Chiesa dallo Stato, nei rapporti con l'estero nella guerra ai re e ai privilegi degli altri paesi.
    Per il popolo le celebri massime, affisse dappertutto. proclamate ovunque, sono queste:
    "Sovranità della Nazione - La Libertà o la morte - Gli aristocratici alla forca - Tutti i tiepidi sono dei sospetti - Arresto e massacro dei sospetti".
    E  precisamente e perfettamente ammesso che la diffusione di questa dottrina in tutta la nazione possa e debba essere assicurata attraverso tutti i mezzi violenti e intorbidatori.
  2. Per le necessità di questa propagazione si inventa, se non la teoria, almeno la pratica di un partito unico, che ricopra tutto il paese, che investa tutta la nazione, che penetri e sorvegli ogni villaggio e ogni città in tutti i loro quartieri.
    La Società dei Giacobini con le sue innumerevoli succursali costituisce di fatto il partito unico che assume l'investitura ufficiale e che persegue e annienta quanti potrebbero costituire altri partiti, o quanti, nella società stessa, sono considerati dissidenti. Robespierre e il Direttorio moltiplicano le "purghe".
  3. Il raggiungimento del potere avviene per mezzo di una spinta plebiscitaria estremamente violenta e al tempo stesso estremamente  vaga, indeterminala, sospetta, torbida quanto alle forme impiegate per esprimerla. L'essenziale dell'operazione si compie a Parigi e in  qualche grande città attraverso l'instaurazione
    spontanea, imprevista - dunque illegale – di una Comune. In realtà si tratta di un gruppo di uomini armati estremamente ristretto – qualche migliaio - che con minacce e pressioni continue, con sommosse, manovra l'assemblea eletta, le impone risoluzioni e condanne e condiziona la nomina dei governi.  Si agita l’idea dell’autogoverno del popolo, il governo della nazione da parte di tutta la nazione; ma nell’immediato il corpo politico altro non è che questo partito unico dei Giacobini. Il.quale  partito unico obbedisce esso stesso ciecamente ad alcuni capi che non si stanca mai di trasformare in dittatori. Marat è stato il primo a porre apertamente nella politica europea moderna il principio della dittatura.
    Nella seduta del 25 settembre 1792, questo cosmopolita nato da padre sardo e da madre  svizzera, proclama dai podio: “Io credo di essere il primo scrittore politico, e forse il solo in Francia dopo la Rivoluzione che abbia proposto un dittatore, un tribuno militare…”  Negli anni che vanno dal 1789 al 1793 si passa da una prima deformazione del suffragio universale, la dittatura dell’assemblea ( questa aristocrazia come la chiama Saint Just) a una seconda deformazione, la dittatura del Giacobini nell’assemblea, e quindi a una terza, la dittatura dei capi dei Giacobini ( già dittatori nel Comitato di Salute pubblica. Dittatura che si rinnova nel direttorio e non cede il posto che alla dittatura definitiva di Bonaparte.
  4. La dottrina nazionale assume due aspetti decisamente contraddittori, ma non meno decisamente legati nello spirito dei primi adepti (come nello spirito di tutta la nazione che vi si sottomette: una dottrina che resta profondamente nazionale e sottomessa agli interessi della nazione, e che nello stesso tempo si propone
    all'esterno come internazionale e suscettibile di una adesione universale. In una parola, la dottrina di Stato è un fermento di imperialismo.
   Ecco presentati, in modo brutalmente sommario, i quattro caratteri evidenti del giacobinismo. Come non accorgersi del fatto che questi quattro punti si ritrovano in tutti i regimi totalitari dei nostri giorni?
Esaminiamo dapprima il regime russo, primo in ordine di tempo. Qui la filiazione giacobina non può essere messa in dubbio perché esplicitamente proclamata.
   Lenin, come prima di lui Marx, studia a fondo il regime giacobino e ne trae un metodo vivo, che mira all'essenziale e lo traduce in modi facilmente e prontamente adattabili. Stalin non ha fatto altro che confermare e fissare questi termini, come Napoleone ha fissato tutto quello che era d'uso sperimentato nell'armamentario giacobino. Lenin perfeziona il metodo giacobino, approfittando dell'esperienza e della riflessione di un secolo. Tanta riflessione e tanta
scienza, tuttavia, non si sono prodotte senza una buona dose di immoralità. In un colpo solo Lenin si trova in pieno cinismo e machiavellismo, là dove i Giacobini avevano impiegato qualche tempo a perdere le loro illusioni o ad ammettere le loro intenzioni
  1. Lenin ha dapprima costruito la dottrina, con la precisione e l'abilità che si possono trovare in un solo cervello quando questo è pregno di meditazioni incessanti sull'azione. Robespierre non sapeva che sarebbe stato Robespierre; Lenin sa che egli sarà Robespierre. Alcuni principi molto semplici presi in prestito dal marxismo per quanto riguarda la questione sociale, il quale marxismo deriva, è esso stesso a riconoscerlo, dalla punta estrema del giacobinismo, della (parola mancante). Per ciò che concerne il metodo politico, la teorizzazione della pratica giacobina e della pratica comunarda del IB7I, a cui Lenin aggiunge - fatto da sottolineare - certi prestiti dai teorici prussiani della guerra totale.  Bisogna leggere gli scritti salienti di Lenin come La malattia infantile del comunismo (3) o Lo Stato e la Rivoluzione (4) per vedere come ha saputo, apparentemente rispettando il gergo e la lettera di Marx, semplificare e rendere pragmatica la farragine dei dottori e dei casisti. E così che i Sanculotti minimizzando le sfumature e le esitazioni di Rousseau e di Montesquieu. Lenin non ignora le sottigliezze e la difficoltà della dottrina, ma passa oltre con la faciloneria di un Cromwell, di un Federico II o di un Bonaparte... Se non si può fare altrimenti si farà del  socialismo troppo presto e troppo velocemente. Se questo fallisce, si tornerà indietro e si farà la N.E.P. (5); per poi ricominciare in seguito con più energia.   E le parole d'ordine immediate sono: "la pace subito, ad ogni costo, a costo di Brest-Litovsk",per poi invadere, tre anni più tardi, la Polonia. E "il potere al consiglio degli operai e dei soldati", per poi spezzare più tardi, a Cronstadt, l'insurrezione permanente. E "la terra ai contadini per socializzare,in seguito,tutta la terra.
  2. Ha creato anticipatamente (nel 1903) il partito unico, dandogli subito una forma rigorosa Dittatura assoluta del capo sul suo consiglio e dittatura assoluta del capo e dei suo consiglio sulla truppa. Sin dai primi giorni della rivoluzione non rimane che applicare la dittatura assoluta del partito sulla nazione. Da quel momento la piramide è perfetta e dal vertice dell'assolutismo digrada per tre livelli fino agii ultimi ranghi della nazione. 
  3. Ha ridotto al minimo l‘istanza plebiscitaria. Niente elezioni generali. Consigli di operai e di soldati nelle grandi città, penetrati dal partito bolscevico che vi mette a capo i propri esponenti per acclamazione. In seguitò avranno  luogo le elezioni, ma completamente truccate dalla dittatura del partito. Tutte le autorità del paese dipenderanno dal partito. 
  4. La dottrina dell'Internazionale è la dottrina del partito e dello Stato. Il Komintern sarà, nelle mani dell'egoismo nazionale russo, uno strumento d'imperialismo senza uguali, come non è mai stato nemmeno il papato nelle mani di una famiglia italiana.
    In Italia, in Germania, la ripetizione di queste caratteristiche ci appare monotona. E tuttavia l'ignoranza e l'oblio dei modelli l'hanno fatta apparire sorprendente. Ma ci sono alcune sfumature da segnalare.
Dapprima l'Italia.
pnf Anche Mussolini ha creato un partito unico e i rudimenti di una dottrina di Stato, ma nel mezzo del combattimento, che lo sospinge e lo obbliga a improvvisare come i Giacobini. Mentre Lenin ha potuto stabilire agevolmente, in un colpo solo,la sua tirannia sulla strada spianata dallo zarismo (Duma (6) rinviata, Zemstvos (7) poco solidi), Mussolini aveva davanti a sé un regime parlamentare esistente, anche se truccato. Non lo distruggerà che progressivamente.  Così come non si libererà che progressivamente della S.D.N. (8).
   Complessivamente le rotture di Mussolini sono state più lente e meno rigorose, meno definitive di quelle di Lenin - e anche di quelle Ci Hitler" Ritorneremo su questo punto. Notiamo subito che Mussolini non ha rotto con la religione come Lenin, né perseguitato la Chiesa come Hitler coi principi del liberalismo. Ha soppresso il Parlamento, ma ha creato la Camera delle Corporazioni, ii Gran Consiglio Fascista, ha mantenuto il Senato. Ha così assicurato
la possibilità del ritorno alla mediocre routine dei tempi normali in caso di scomparsa del suo insostituibile genio. La storia non produce spesso nello stesso luogo due uomini di genio uno dopo l'altro. Mussolini ha anche conservato una certa prudenza nello sdoppiamento del fascismo nazionale in universalismo di propaganda internazionale.
Rimane non meno vero che egli ha spinto il principio del partito unico verso le sue più terribili conseguenze, poliziesche, omologanti, meccanizzanti.
 hitler  Passiamo alla Germania.
   Hitler è stato molto più veloce e più forte di Mussolini. Effetto del temperamento tedesco, meno flessibile, più brutale del temperamento italiano, più amante delle conseguenze estreme, che si rivoltano, secondo una dialettica tragica,  contro il loro punto di partenza? Effetto della vicinanza con la Russia? C'è non poco di slavo nel tedesco e la pressione del vicino comunismo ha prodotto una reazione della stessa intensità c di carattere del tutto omologo.
   Hitler, a differenza di Mussolini, ha avuto tutta la libertà, come Lenin, di preparare i suoi strumenti: partito e metodo. Non ha soppresso il Parlamento, ma ne ha truccato I' elezione come hanno fatto Lenin e Stalin. Attualmente il sistema elettorale è lo stesso nei tre paesi totalitari: dei candidati proposti alla nazione dal partito unico al quale si può solamente dire: no. E sempre il vecchio principio giacobino: "Nessuna libertà ai nemici della Libertà". La Convenzione non fu eletta che da collegi elettorali rarefatti dalla paura, e durante il Terrore non vi siederanno in media che 200 o 300 rappresentanti su 750.
   Hitler è stato in tutto ai tre quarti delle estremità di Lenin e Stalin e questo lo ha portato più lontano di Mussolini. Il suo Fronte del Lavoro ha spezzato più irrimediabilmente la vita sindacale di quanto abbia fatto il corporativismo
di Mussolini. Ha imposto lo statalismo in modo più veloce e più forte in ogni settore. Ha quasi rotto i rapporti con le chiese. La sua polizia è stata più assoluta.
   Ciò che occorre soprattutto sottolineare è che la sua rivoluzione è stata operata con una specie di perfezione matematica. Dopo una maturazione di dieci anni, andando più veloce di Mussolini,.ha potuto essere più sicuro e più
puntuale. E possibile osservare qui l'effetto del concatenamento di antecedenti che cerco di evidenziare in questo articolo. Dai Giacobini ai Bolscevichi c'è già un gran progresso sulla via della rapidità e dell'efficacia; per certi aspetti
anche Mussolini approfitta della velocità acquisita, ma piuttosto per aumentare la sua flessibilità che la sua forza fragorosa; è Hitler che approfitta della messa a punto" Ritroviamo il modo di procedere documentato dei Tedeschi. In ogni caso si arriva alla perfezione del genere, al capolavoro; forse anche a quel carattere mostruoso delle opere d'arte ultime che annuncia una decadenza prossima. Ma sono forse sofisti quelli che vedono in Michelangelo  l'inizio della fine?
Dopo questo sguardo retrospettivo non sarà certo difficile comprendere come Hitler e Stalin si siano avvicinati e Mussolini non si sia separato in modo decisivo da Hitler quando quest'ultimo si è avvicinato a Stalin. Sarebbe comunque un errore credere che dal momento che i due regimi nazional-socialisti e quello comunista hanno interrotto in una certa misura la lotta tra le loro propagande, le loro immagini pubbliche possano fondersi o confondersi.
   I due regimi continueranno a distinguersi per effetto, oserei dire, di una identica proprietà: l'impermeabilità. Una impermeabilità garantita dal rigore dell'egoismo nazionale sul quale sono fondati e sulla feroce disciplina poliziesca che li corazza. Uno stato totalitario è altrettanto chiuso con i suoi amici che con i suoi nemici, per questo può più facilmente cambiare gli uni e gli altri. L'Italia può aprirsi e chiudersi due o tre volte di seguito all'influenza tedesca.
La Russia può fare altrettanto. Uno Stato totalitario è egoista e disponibile come un monarca disincantato del XVI secolo, come un Federico II o una Caterina II.
Possiamo spingere più lontano le nostre osservazioni. Non si possono comprendere delle somiglianze di struttura così precise se non attraverso somiglianze di principi. Scopriremo, in effetti, che l'identità del contenuto è comparabile a quella del contenente.
C'è, tutto sommato, la stessa filosofia, la stessa concezione della vita e del mondo, nei Giacobini, nei Bolscevichi, nei Fascisti e nei Nazisti.
Stessa fede, stesso fanatismo. Fede e fanatismo fondati sugli stessi postulati. Fede esclusivamente terrena, esclusivamente laica.
    Per i totalitari di oggi come per quelli del 1793 non può esserci altra fede che quella politica. La religione è relegata all'ultimo posto delle preoccupazioni umane, quando non è completamente esclusa. Hitler invoca un Dio altrettanto vago e altrettanto funzionale al suo progetto che quello di Robespierre. Stalin lo nega come hanno fatto certi giacobini estremisti. Mussolini tratta con molto  tatto la Chiesa cattolica come la trattava Napoleone.
    Fascisti e hitleriani credono, come i marxisti diventati staliniani, che tutta l’attività interiore ed esteriore dell’uomo debba essere impiegata per la sua salvezza terrena, per una costruzione sociale e politica. Il loro idealismo si manifesta solo nei prodighi sacrifici per la conquista del regno terreno.
Di conseguenza il loro atteggiamento è altrettanto diffidente nei confronti di ogni religione costituita, di ogni Chiesa. Essi ne temono e detestano gli appelli verso l’aldilà, la pretesa di contestare allo stato la presa sulle coscienze, l'offerta d'altre forme di dedizione oltre a quelle dovute allo Stato.
    In definitiva, si può constatare che il fascismo (nonostante il suo desiderio di conservare i vantaggi che assicura a ogni potere italiano l'aspetto italiano della Santa Sede) e l'hitlerismo  (nonostante la velleità, che fu forse passeggera, di distinguersi sotto questo aspetto dallo stalinismo) sono nelle loro tendenze profonde e nei loro fini ultimi laici, anticlericali, anti-cristiani, atei come lo stalinismo e come un tempo il giacobinismo.
   E di fronte alle loro recenti imprese si può constatare che l'umanità si trova molto vicina a una situazione che forse non ha mai conosciuto prima.
    Prendiamo l’Antichità. Non parlo dell’Antichità primitiva della quale gli scienziati cominciano  ad avere una conoscenza molto profonda ma che non hanno ancora saputo divulgare né presso il pubblico comune né presso l'élite letterata. In questa antichità primitiva, la religione è la vita stessa, ogni atto umano è un atto religioso. Prendiamo l'Antichità classica. Contrariamente a quanto ripetono gli ignoranti, non c'era fusione completa tra Stato e Spirito. Dapprima la religione, non essendo codificata e concentrata in Chiese perfettamente delimitate, sfuggiva per la sua fluidità alle prese dello Stato. C'erano cento religioni e nessuna Chiesa. Tutto era dinamico: dogmi, riti, clero. Al di là di  certi elementi di una religione di Stato, a Roma pullulavano religioni nazionali, o che avrebbero
dovuto essere nazionali, più o meno adattate le une alle altre, più o meno mescolate, e c’erano le sette, allo stesso tempo conosciute e segrete, le religioni del mistero. L’umanità dell’Impero aveva dunque una certa facoltà di equilibrio tra va religiosi. Essa poteva difendersi con gli uni contro gli altri e con questi contro quelli. Questo è ancora più evidente nel Medio Evo, durante il quale i popoli d'Europa beneficiarono dell'impotenza di ciascun concorrente - il Papato e I 'Impero - ad assorbire l'altro. Contro I 'ombra dell’uno si poteva trovare rifugio nell'ombra dell'altro.    Naturalmente c'è l'esempio del Basso Impero, la teocrazia della Roma del IV secolo, che è a continuata a Bisanzio per mille anni.
Tutti questi sistemi, avendo divelto il parapetto della religione o, in mancanza di essa, della filosofia indipendente dalla religione, vengono trascinati verso la stessa discesa vertiginosa lungo la china dell'immoralità. Non riconoscendo dei limiti extra-umani, in essi l'umano si disgrega rapidamente. perché l’umano non è umano che quando è legato al divino; separato dal divino ridiscende, verso l’animale, al quale si era sottratto sollevandosi al di sopra di se stesso e ponendo al di là della propria portata gli ingranaggi più delicati e più necessari della sua attività.
Alla prima applicazione, la morale dei Giacobini si mostra terribilmente pragmatica. Appena giunti al potere non disdegnano l'uso di ogni astuzia e violenza dell'ancien régime, abbandonando quella condizione d'animo che precedentemente garantiva la presenza di certi principi - spesso violati ma mai negati. Fu così che subito dopo avere dichiarato la pace al  mondo i Giacobini gli dichiareranno guerra e per ventitré anni calpesteranno senza vergogna tutti i popoli dell'Europa col pretesto di portare loro un migliore sistema filosofico, politico e sociale.
     Il decadimento della morale libera in pragmatismo e del pragmatismo in cinismo è ancora più rapido per i Russi, i Tedeschi e gli Italiani di oggi che per i Francesi di ieri. Tutte le alleanze sono buone e così tutte le rotture. L'amico di oggi sarà il nemico di domani, e il nemico di domani sarà l'amico di dopodomani.
   E stupefacente vedere, d'altro canto, come Federico II, che attinge la sua filosofia alle stesse sorgenti dei Giacobini, si mostri loro precursore nell'azione risoluta. E col cinismo di un Federico II che la Convenzione sfrutta le brame prussiane sulla Polonia per firmare la pace con il successore cli Federico nel 1795. E con lo stesso cinismo che essa prolunga la sua occupazione delle province renane, dei Paesi Bassi e dell'Italia.
   Bonaparte non dovette aggiungere niente all'insegnamento ricevuto da Federico, dalla Convenzione e dal Direttorio. Ma egli giunse a scandalizzare il rappresentante accanto a lui dell'Ancien. Régime, Talleyrand, il quale era sì un perfetto cinico in tutto, ma aveva conservato della vecchia Europa il senso della moderazione, senso al quale, dopo tutto, anche Federico II si piegherà verso la fine, come avrebbe voluto fare Luigi XIV.
   Dal primo momento Lenin mostra la misura del suo machiavellismo, erede dei Giacobini, firmando Brest-Litovsk e poi gettandosi sulla Polonia.
   Rapallo non fu che una conferma di una condizione di spirito già bene indicata. E il patto di questi tempi (9) non è che una prova in più quasi superflua.
   Allo stesso modo Mussolini si affretta, poco dopo il suo avvento, ad intendersi coni Sovietici.
   Ne va della politica interna come di quella estera. I Giacobini non hanno mai conosciuto altro punto di vista che quello della polizia più segreta e più brutale, e Fouché ha consegnato a Napoleone uno strumento pronto all'uso. Tchéka o Guépéou, Gestapo o Ovra non hanno fatto altro che riutilizzare la ricetta messa a punto da Fouché, ripresa sotto il secondo Impero.
  Se la morale politica è la stessa, i risultati sociali sono identici. Vige sempre e dappertutto la stessa omologazione. Se i Giacobini hanno distrutto l'aristocrazia, i bolscevichi hanno fatto di meglio, e Hitler e Mussolini non si preoccupano tanto delle macerie che hanno trovato e che hanno potuto utilizzare per arrivare al potere.
   Oggi in Germania e in Italia, come in Francia ai tempi del terrore, si è trovato il pretesto dell'economia di guerra, sorella inevitabile dell'economia rivoluzionaria, per abolire i beni accumulati col lavoro o ereditati.
   Si distrugge così, con ii peggio del capitalismo, anche il residuo meno malvagio dell'economia patriarcale, che sosteneva le possibilità della cultura e dell'indipendenza dello spirito.
Allo stesso modo è annientata ogni economia delle istituzioni spirituali (chiese, università, accademie, ecc.). Così si arriva alla distruzione di ogni élite particolare.
   Non ci sono più risorse per lo spirito che in un conformismo assoluto.
   Resta da sapere se tutto questo non sia inevitabile... Proferire queste parole significa indicare l'ipotesi della decadenza dell'Europa,
ipotesi che non può apparire in un così breve scritto che come sfondo.
   Se i Francesi prendessero coscienza di questo insieme di fatti, per quanto tardi sia, non potrebbero vivificare le loro riflessioni in modo  decisivo?
Bisogna prendere atto della divisione dei Francesi, che si raggruppano in obbedienze diverse: Action Francaise, repubblicanismo nazionale, repubblicanismo radicale, socialismo e ... comunismo.
   È certo che i maurrassiani non possano essere stupiti dalla tesi qui presentata sulla filiazione giacobina del fascismo. Essa è inclusa in tutti gli insegnamenti di M. Charles Maurras. Credo che non l'abbia mai espressa in una forma  altrettanto rigorosa per due ragioni La prima è che con molta prudenza e precisione egli ha sempre voluto conservare un'attenzione particolare agli elementi che nel fascismo italiano potevano andare in una direzione diversa da quella dell'eccesso giacobino" Maurras non è certo stato I' ultimo a percepire quel che c'era di maurrassiano o di consanguineo al maurrassianesimo in certi affluenti del fascismo.
Ai primi fascisti violenti, nati nelle strade, si erano uniti dei monarchici nazionalisti dell'Idea Nazionale, la cui parentela con I'Action Francaise era evidente. A causa di tutto questo Maurras non ha mai potuto o voluto riconoscere l'importanza della filiazione diretta tra istituzioni giacobine e istituzioni fasciste, che io qui sottolineo, e la violenza di rottura che essa genera. D'altra parte nell'hitlerismo, M. Maurras non individua che tratti decisamente tedeschi.
Ma non attribuisce egli forse una origine tedesca al giacobinismo, al totalitarismo francese?
Maurras è solito risalire alla Riforma per mostrare la genealogia dall'89 al '93' Se io volessi seguirlo dovrei constatare che nell'eredità che i Nazisti hanno inconsciamente ricevuto dai Giacobini essi non hanno fatto altro che ritrovare ciò che era loro proprio.
In ogni caso la prudenza del tradizionalista Maurras nella considerazione del regime rivoluzionario italiano si fonda su fini osservazioni che hanno il loro peso. Io stesso ho sottolineato poco fa le differenze di grado tra il metodo di Mussolini e quello di Hitler. Potrei insistervi più lungamente e mostrare tutto ciò che separa i due regimi. Credo che una sintesi brutale come quella che ho qui costruito sia necessaria per aprire le menti, ma essa può essere utile solo se sorretta e corretta dall'analisi. Per cominciare non bisogna dimenticare il fatto irriducibile della vita, che sulla stessa linea crea unità perfettamente autonome; sullo stesso ramo ogni fiore è indicibilmente particolare. E certo che l'Italia fascista, con la sua struttura corporativa precisamente e finemente determinata, la sua organizzazione politica che non esclude al disotto e attorno al dittatore temporaneo dello Stato diverse istituzioni di appoggio e di garanzia nell'avvicendamento al potere: la Corona per cominciare, il Senato e il Grande Consiglio Fascista, mostrano una solidità di struttura costituzionale e istituzionale che non può che ritardare, smorzare o correggere gli impulsi rivoluzionari dai quali, per altro, essa è animata e virilizzata. E poi c'è il genio italiano. Tutto questo distingue nettamente il totalitarismo 50 fascista da quello nazional-socialista. Anche tra quest'ultimo e quello comunista c'è, ad una scala inferiore, una soluzione di continuità che concerne la persistenza di una forza tradizionale dal lato tedesco. Non è un  aspetto di poco conto che Hitler non abbia fatto tabula rasa in un solo colpo, come i Bolscevichi o i Giacobini. Per ritornare alla sezione maurrassiana dell'opinione pubblica francese, dobbiamo ancora domandarci a cosa valgano le deduzioni per l'avvenire a partire dalle presenti constatazioni.  Maurras conta sull'Italia e soprattutto sulla vittoria franco-inglese per riportare la Germania alla misura. Egli vuole dividere la Germania in più Germanie e poi, come nell'Austria ristabilita alla testa del suo vecchio impero danubiano, fare rivivere le forze tradizionali, monarchiche, aristocratiche che egli pensa dovrebbero essere, là come da noi, generatrici di saggezza e di pace. Ci si domanda se queste vedute non siano vanificate anticipatamente dal corso degli avvenimenti europei.  I democratici francesi, siano essi nazionalisti o radicali o socialisti, dovrebbero certo rivedere completamente i loro punti di vista sulla realtà e l'attualità dell'Europa.
   Senza questo cambiamento essi sono condannati, oggi come ieri, a non comprendere gli avvenimenti che si svolgono in Europa e nei mondo dopo l'Ottobre 1917. Se essi si accorgessero della filiazione mostrata, sarebbero meno portati ad attribuire un carattere accidentale a ogni nuova manifestazione dell'attività totalitaria in Europa. Cos'è un accidente che dura più  di venti anni, che dura un quarto di secolo, e che si rinnova in paesi diversi? I nostri democratici, che da venti anni tutte le mattine sperano di sbarazzarsi del totalitarismo contando sul trapasso fortuito di Mussolini o di Hitler, ci fanno pensare a quei sostenitori dell'Ancien Régime che hanno atteso tutti i giorni per un secolo o due I' evaporazione dell'incubo dell'89 e che, ancora oggi, parlano dell'89 come di una malattia. Cos'è una malattia che festeggia il suo cento cinquantenario, che si confonde con la vita di un popolo? Tutto ciò ci ricorda quell'adagio della medicina che afferma: "la malattia è lo stato stesso della vita".
   Tuttavia non mancheremo di pensare che uno Stato politico durato centocinquanta anni (a dispetto delle interruzioni e delle alterazioni) deve ben essere pronto a rinnovarsi. Né nell'antichità  né nei tempi moderni una forma politica è durata più a lungo senza subire qualche metamorfosi. Se per il fatto stesso che è stata, questa forma lascerà delle tracce nelle forme che le succederanno, è non di meno vero che essa cederà loro il passo.
   Riportiamo queste conclusioni sull'ancor giovane totalitarismo. La morte di tal dittatore o la disfatta militare o politica del tal altro non aboliranno le cause che ne hanno prodotto una serie. Se queste cause non vengono rintracciate, il fenomeno sussisterà e minaccerà di riapparire. La dittatura è in questo momento in Europa e in tutto il mondo un'idra a cento teste. Queste cause i democratici le conoscono be ne, una a una e nei loro particolari. Le hanno denunciate una dopo I 'altra muovendosi a caso; ma essi non hanno mai saputo concepirle nel loro insieme, né soprattutto concepire e mettere in azione il trattamento di insieme che metterebbe loro fine.
   Mostrando la filiazione dei totalitarismi attuali dal vecchio totalitarismo giacobino, ne ho mostrato le radici morali e filosofiche profonde.
    Sono fermamente persuaso della necessità di rivedere tutto ciò che sussiste nello spirito europeo delle idee del XVIII secolo, divenute pregiudizi, per modificare e venire a capo del fato che ci incalza. Ancora una volta i totalitarismi contemporanei hanno preteso, l'uno, il rosso, superare, gli altri, il bruno e il nero, distruggere I' eredità del XVIII secolo – razionalismo superficiale, sentimentalismo facile che sfocia in un culto della memoria (10) romantico; ma ad una osservazione attenta ci rendiamo conto che queste pretese sono infondate.
   Del resto, a queste cause, queste circostanze morali che hanno cominciato ad agire alla fine del XVIII secolo in Francia, si sono aggiunte altre cause, altre circostanze. Per rimanere fedeli al nostro soggetto non possiamo che indicarle prima di terminare.
    Cause economiche... No, il termine è troppo ristretto, e molto pericoloso per la sua ristrettezza. Struttura dell'Europa. L'Europa non può più vivere secondo la vecchia struttura delle nazioni.
   Il Trattato di Versailles ha messo in movimento due principi contraddittori: il principio delle nazionalità spinto alle sue estreme conseguenze nel diritto dei popoli a disporre di loro stessi. Esso ha sacrificato tutto al diritto della lingua, senza tenere conto delle necessità che discendono dai luoghi e dai beni, vale a dire della geografia e della economia.
    D'altra parte esso ha proposto dall'alto il principio della Società delie Nazioni, sorta di abbozzo teorico senile che rispecchia le forme democratiche quali sono ancora conosciute in Francia e in Inghilterra. E questo principio si trovava in contraddizione latente con il primo. Coloro che hanno posto a Ginevra il principio dell'unione europea insieme al principio delle nazionalità presentivano, attraverso le categorie invecchiate del loro intelletto razionalista e
democratico, la necessità di risolvere una organizzazione autarchica inglobante non solamente l'Europa, ma anche l'Africa e il vicino Oriente - i problemi fondamentali delle materie prime e della disoccupazione.
   Ma non si risolvono grandi e nuovi problemi materiali senza rinnovare lo spirito. Non si (parola mancante) Ginevra con quello che è stato Io spirito di Ginevra. Non si rimedierà ai mali generati dalla filiazione giacobina restando prigionieri dei principi giacobini, da noi completamente degenerati.
Pierre Drieu La Rochelle

Note:
1) A Brest.-Litovsk il 3 marzo 1918 fu firmato il trattato di Pace con il quale la Russia chiuse la sua partecipazione alla Prima Guerra Mondiale, rinunciando a Lavonia, Curlandia, Lituania, Estonia e Polonia e riconoscendo Finlandia e Ucraina come stati autonomi (N.d.C.)
2) A Rapallo fu sottoscritto il patto russo-tedesco del 1922, patto comprendente la rinuncia alle riparazioni di guerra e la ripresa delle relazioni diplomatiche. (N.d.C.)
3) Vladimir Ilic Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo (1920), in Opere complete, Editori Riuniti., Roma, 1971 (N.d.C.).
4) Vladimir Ilic Lenin, Stato e rivoluzione, (1917) Editori Riuniti, Roma 1970,
5) La Nuova politica Economica  voluta da Lenin per L’Unione Sovietica.
6) La Duma è il parlamento russo. [N.d.C.]
7)Creato nel 1864 dallo zar Alessandro II, L'istituto dello Zèmstvo era un'assemblea elettiva distrettuale che si occupava dell'amministrazione locale e della riscossione delle imposte. [N.d.C.]
8) Società delle Nazioni, organismo antesignano delle attuali Nazioni Unite. [N.d.C.l
9) Drieu La Rochelle si riferisce qui al patto di non aggressione tedesco-sovietico, detto patto Ribbentrop-Molotov,
firmato il 27 agosto 1939 dai due ministri degli esteri di Germania e Unione Sovietica. [N.d.C.]
10) L'espressione "culto della memoria" traduce il neologismo francese mémoralisme.[N.d.T.]

Testo Scannerizzato dal Testo: Pierre Drieu La Rochelle. Le radici Giacobine dei Tolitarismi, Bolscevismo, Nazismo e fascismo, a cura di Calogero Lo Re, Tabula Fati Edizioni.