Quel giorno George Bush si lasciò
andare all’emozione e le lacrime
gli solcarono le guance. In visita
al Museo Yad Vashem di Gerusalemme, con la kippah ebraica in
testa, aveva appena domandato
al proprio Segretario di Stato
perché i bombardieri alleati non
avessero attaccato Auschwitz
durante la Seconda guerra mondiale. L’11 gennaio 2008 il Presidente degli Stati Uniti
concludeva la sua visita di Stato in Israele con un pellegrinaggio al Children’s Memorial della Shoah. Ascoltando
una poesia di Hannah Szenes (paracadutata in Iugoslavia per andare in soccorso degli ebrei ungheresi e fucilata
dai nazisti il 7 novembre 1944), non era riuscito a trattenere la commozione.
Condoleeza Rice, alla quale aveva
riproposto uno dei tanti enigmi ancora irrisolti nella storia dell’Olocausto, gli aveva tuttavia risposto in un modo
che forse non avrebbe soddisfatto nemmeno la più sprovveduta delle sue matricole all’Università di Stanford. Lo aveva fatto con freddezza, pur senza tergiversare troppo
sulla cinica realpolitik che aveva informato la strategia
degli Alleati durante il conflitto con l’Asse, man mano che
i destini dello scontro parevano segnati: «Gli americani
in quegli anni non pensavano che ciò sarebbe servito a
fermare la macchina di sterminio», si limitò a dire lei.
Ma ciò che la stampa si rifiutò allora di approfondire,
così come accade ancora oggi pur con un nuovo inquilino insediato alla Casa Bianca, è che il quarantatreesimo
Presidente statunitense avrebbe trovato molto più facilmente in famiglia i motivi della sostanziale indifferenza
dell’amministrazione USA (malgrado l’ordine imperativo
di Franklin Delano Roosevelt del 22 gennaio 1944) per
la pervicacia con cui il Nazismo perseguì la cosiddetta
«Soluzione Finale». Documenti resi pubblici nel settembre 2004 dal quotidiano britannico «The Guardian» e
dall’emittente «FOX News», benché con un paio d’anni di
ritardo sulla loro declassificazione, avvenuta a sei decenni esatti di distanza dall’apposizione del segreto di Stato
nel 1942. Quelle carte, riprese al momento soltanto da alcuni piccoli siti web di contro-informazione e da una terna
di saggi storici sconosciuti ai più, collegano in maniera diretta e inequivocabile la stirpe dei petrolieri texani e le loro
attività imprenditoriali all’ascesa di Adolf Hitler in Germania e in particolare ai finanziamenti necessari all’organizzazione e al funzionamento del Partito Nazionalsocialista
dei Lavoratori Tedeschi prima e dopo l’ascesa al potere del
Führer, avvenuta il 30 gennaio 1933. Le implicazioni con il
Terzo Reich della famiglia Bush (un «clan» che fra il 1993
e il 2009 ha dato all’America due presidenti per un
totale di tre mandati) sono documentate e inequivocabili, pur senza aver mai avuto un’eco sui media. Cominciò a indagarle Antony
Sutton nel libro «Wall Street and the
Rise of Hitler» del 1975, integrato tredici anni più tardi dal volume «The Two Faces of George
Bush», mentre «George Bush:
The Unauthorized Biography» di Webster Tarpley e Anton Chaitkin data al 1992. I maggiori quotidiani statunitensi nonché
reti televisive come «ABC», «NBC»
e «CNN» hanno ignorato e tuttora
snobbano queste informazioni nonostante sia ormai dal 2002 che i documenti sono ufficialmente desecretati e chiunque possa leggerli o studiarli
presso la Biblioteca del Congresso a
Washington o gli Archivi Nazionali
di College Park (Maryland): il primo
a scriverne sui giornali è stato però
John Buchanan della «The New Hampshire Gazette». Pochi, ben informati
osservatori si meravigliano anche del
fatto che un cronista d’assalto come
Michael Isikoff, storico corrispondente di «Newsweek», si sia rifiutato finora di approfondire la vicenda malgrado gli siano state offerte per due
volte notizie in esclusiva. Eppure,
dobbiamo proprio a lui, al suo fiuto
giornalistico e al ripudio di ogni tipo condizionamento di natura politica, la scoperta dell’affaire Monica
Lewinsky, quando Bill Clinton era ancora in carica come Presidente degli
Stati Uniti. Meno politicamente corretta fu invece «Newsweek Polska»,
edizione polacca del rotocalco, che ne riferì nel numero del 5 marzo 2003
con un’inchiesta ad effetto: «Bush
Nazi Past».
Ma come è possibile che il Nazismo
avesse amici così influenti e i Bush
non fossero un caso isolato negli
USA? La ragione, più che ideologica, fu pratica: soldi, affari, business.
Una volta al potere, infatti, Adolf Hitler aveva annullato unilateralmente
i debiti tedeschi conseguenza delle
riparazioni belliche dovute ai vincitori della Prima guerra mondiale
(l’incredibile somma di sei miliardi e
seicento milioni di sterline britanniche) e isolato così finanziariamente
il Paese. Un isolamento non assoluto
e tutt’altro che impermeabile: senza
l’accesso al credito internazionale,
Wall Street in primis, il Cancelliere
tedesco non sarebbe stato in grado di
soddisfare le richieste dell’industria
militare e spingere la rinascita della
Germania in Europa. E quei crediti
arrivarono...
La storia cominciò o, per meglio
dire, iniziò ad avere rilevanza pubblica grazie a un articolo del «New York
Herald Tribune», pubblicato il 31
luglio 1941. Quel giovedì, un pezzo
in copertina richiamava un servizio
che sarebbe continuato sulla seconda colonna di pagina 22: «Thyssen
Has $3,000,000 Cash in New York
Vaults» («Thyssen ha tre milioni di
dollari nei forzieri di New York»). Occhiello e testo accompagnavano una fotografia in primo piano del magna-
te tedesco Friedrich «Fritz» Thyssen
(1873-1951), sul quale il quotidiano
si sbilanciava a firma di Jay Racusin.
Quest’ultimo, un cronista tutto d’un
pezzo che lavorava per lo stesso editore fin dal 1918, all’epoca quarantasettenne, era una garanzia di attendibilità: giornalista investigativo
dei più scaltri, abituato a consumare
le suole delle scarpe almeno quanto
taccuini e matite, nel Primo dopo-
guerra era stato l’unico membro del-
la stampa a intervistare lo sfuggente
banchiere John Pierpont Morgan, ancor oggi un’icona del capitalismo a
stelle e strisce. Nel 1940, cioè l’anno
precedente il suo scoop sul denaro
tedesco nascosto oltre oceano, aveva
smascherato una serie di irregolarità
e «peccati spionistici» commessi da
Gerhardt Alois Westrick, un avvocato che rappresentava alcune aziende
statunitensi in Germania e che era
stato nominato addetto commerciale dell’Ambasciata del Terzo Reich a
Washington. Il misterioso legale ave-
va curiosamente preso in affitto una
suite di tre stanze al Waldorf-Astoria
Hotel di New York, pur vivendo di fatto in una villetta di Scarsdale.
Nel pezzo con cui scosse quella lontana estate il «segugio» scriveva che tre milioni di dollari, probabilmente fondi neri («nest eggs») del Governo o di esponenti nazisti, riconducibili al capitano d’industria e banchiere Thyssen (già finanziatore del fallito putsch di Monaco di Adolf Hitler e del feldmaresciallo in congedo Erich Ludendorff dell’8 e 9 novembre 1923), erano depositati in un istituto di credito di New York, e ne citava il nome: la Union Banking Corporation (UBC), con sede legale e uffici amministrati- vi al numero civico 39 di Broadway. L’articolista ipotizzava anche che una mezza dozzina di corporation di diritto statunitense, attive nel campo dell’import-export e dei trasporti, in particolare marittimi, fossero controllate attraverso l’UBC. Germania e Stati Uniti d’America, nell’estate di sessantanove anni fa, ancora non erano formalmente in guerra (le di- chiarazioni in tal senso del Reich tedesco e del Regno d’Italia sarebbero arrivate soltanto l’11 dicembre 1941, quattro giorni dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor), ma la circostanza era comunque motivo di grande imbarazzo negli ambienti politici e diplomatici americani, già da tempo orientati in senso antitedesco.
All’epoca la Banca in questione non fece alcunché per smentire il «Tribune» né l’analoga notizia pubblicata in quegli stessi giorni dal «Washington Post», ma probabilmente reagì adottando un profilo basso per cercare di occultare ancora meglio i pro- pri delicati e invisibili affari. Ci riuscì molto bene, perché non accadde più nulla sino al 20 ottobre 1942, dieci mesi dopo l’inizio delle ostilità fra USA e Germania, durante i quali la Union Banking Corporation continuò ad operare come un normale istituto di credito, vendendo ed acquistando per sé e in conto terzi oro, acciaio, carbone e addirittura Buoni del Tesoro. Questo stato di cose si protrasse finché il Congresso degli Stati Uniti non decise di sequestrare la Banca e le sue azioni, riservandosi di liqui- darla a guerra finita. Il Vesting Order number 248, firmato dal funzionario Leo T. Crowley nella sua qualità di US Alien Property Custodian, ossia custode delle proprietà straniere negli USA, derivava infatti dall’applicazione al caso in questione del Trading with the Enemy Act, la legge federale approvata il 6 ottobre 1917, sul finire della Grande Guerra, al fine di limita- re gli scambi commerciali con Paesi ostili; dal 20 ottobre 1933 era peraltro vigente un emendamento, voluto proprio durante la presidenza Roosevelt, per estendere l’«Act» in parola ai trasferimenti di oro e di pietre preziose, il ché isolava ancora di più i nemici degli States sul piano finanziario. Curiosamente, l’ufficio newyorchese dello US Alien Property Custodian era a pochi isolati dal quartier generale UBC: 120 Broadway.
Nel pezzo con cui scosse quella lontana estate il «segugio» scriveva che tre milioni di dollari, probabilmente fondi neri («nest eggs») del Governo o di esponenti nazisti, riconducibili al capitano d’industria e banchiere Thyssen (già finanziatore del fallito putsch di Monaco di Adolf Hitler e del feldmaresciallo in congedo Erich Ludendorff dell’8 e 9 novembre 1923), erano depositati in un istituto di credito di New York, e ne citava il nome: la Union Banking Corporation (UBC), con sede legale e uffici amministrati- vi al numero civico 39 di Broadway. L’articolista ipotizzava anche che una mezza dozzina di corporation di diritto statunitense, attive nel campo dell’import-export e dei trasporti, in particolare marittimi, fossero controllate attraverso l’UBC. Germania e Stati Uniti d’America, nell’estate di sessantanove anni fa, ancora non erano formalmente in guerra (le di- chiarazioni in tal senso del Reich tedesco e del Regno d’Italia sarebbero arrivate soltanto l’11 dicembre 1941, quattro giorni dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor), ma la circostanza era comunque motivo di grande imbarazzo negli ambienti politici e diplomatici americani, già da tempo orientati in senso antitedesco.
All’epoca la Banca in questione non fece alcunché per smentire il «Tribune» né l’analoga notizia pubblicata in quegli stessi giorni dal «Washington Post», ma probabilmente reagì adottando un profilo basso per cercare di occultare ancora meglio i pro- pri delicati e invisibili affari. Ci riuscì molto bene, perché non accadde più nulla sino al 20 ottobre 1942, dieci mesi dopo l’inizio delle ostilità fra USA e Germania, durante i quali la Union Banking Corporation continuò ad operare come un normale istituto di credito, vendendo ed acquistando per sé e in conto terzi oro, acciaio, carbone e addirittura Buoni del Tesoro. Questo stato di cose si protrasse finché il Congresso degli Stati Uniti non decise di sequestrare la Banca e le sue azioni, riservandosi di liqui- darla a guerra finita. Il Vesting Order number 248, firmato dal funzionario Leo T. Crowley nella sua qualità di US Alien Property Custodian, ossia custode delle proprietà straniere negli USA, derivava infatti dall’applicazione al caso in questione del Trading with the Enemy Act, la legge federale approvata il 6 ottobre 1917, sul finire della Grande Guerra, al fine di limita- re gli scambi commerciali con Paesi ostili; dal 20 ottobre 1933 era peraltro vigente un emendamento, voluto proprio durante la presidenza Roosevelt, per estendere l’«Act» in parola ai trasferimenti di oro e di pietre preziose, il ché isolava ancora di più i nemici degli States sul piano finanziario. Curiosamente, l’ufficio newyorchese dello US Alien Property Custodian era a pochi isolati dal quartier generale UBC: 120 Broadway.
Ma che cosa collegava in maniera
così diretta la famiglia Bush al movimento e all’investimento di capitali
nazisti attraverso l’Atlantico? Innanzitutto, la ripartizione del pacchetto
azionario (quattromila quote) e le
cariche sociali della Union Banking
Corporation, che erano così suddivise: 3.991 azioni del valore unitario di
125 dollari appartenevano a Edmund
Roland «Bunny» Harriman, «chairman» della UBC, fratello minore del
politico e diplomatico William Averell, già Governatore dello Stato di
New York (entrambi figli del magnate americano delle ferrovie Edward
Henry Harriman); quattro quote
erano di Cornelis Lievense, olandese
naturalizzato statunitense, presidente della società; un’azione ciascuna di Harold Pennington, che della
UBC era anche tesoriere, Ray Morris,
Hendrik Jozef Kouwenhoven, Johann
Groeninger e Prescott Sheldon Bush.
Benché titolare di una sola quota nominale della Banca, il nonno del penultimo Presidente degli Stati Uniti e
padre del predecessore di Bill Clinton
era di fatto l’amministratore delegato
dell’istituto, il «vero banchiere», tanto più che, lavorando realmente nella
capitale economica d’America, la sua
firma appare in calce a numerosi atti
o procure di cui ebbe la piena responsabilità sino al giorno della confisca
governativa. Per uno dei tipici scherzi
del destino che talvolta la storia pro-
pone, negli stessi giorni in cui alcune
sue proprietà venivano sequestrate
in America, William Averell Harriman
si trovava in Gran Bretagna come inviato di Roosevelt per discutere della
guerra con il feldmaresciallo sudafricano Jan Smuts.
Nato il 15 maggio 1895 a Columbus, in Ohio, da Samuel Bush e Flora
Sheldon, Prescott non aveva avuto
difficoltà a farsi strada nella high
society americana dell’epoca attraverso un’abile politica matrimoniale,
talmente ponderata che non avrebbe
sfigurato nell’Italia rinascimentale: il
6 agosto 1921 a Kennebunkport, nel
Maine, aveva infatti sposato Dorothy, erede del ricco industriale George Herbert Walker, con la quale non avrebbe generato soltanto cinque figli, ma anche grandi affari tra i due
«clan» familiari (naturalmente, sempre sotto l’ala protettrice degli Harriman e dei potentissimi Rockefeller).
Ritornato dalla Grande Guerra con
i galloni di capitano d’artiglieria e
dotato di un’affascinante voce da tenore, Bush piaceva subito a tutti. Le
nozze con l’ereditiera di Saint Louis
e il patrimonio del suocero gli portarono anche la vicepresidenza della W.
A. Harriman & Company, società che,
con il nome di Brown Brothers Harriman dopo la fusione con la ex Brown
Shipley di Londra, sarebbe presto diventata la più grande banca privata d’investimento del mondo: la sede principale, un tempo al
59 di Wall Street, è oggi a Broadway
al civico 140. A ciò non avevano
potuto non contribuire la frequentazione dell’Università di Yale, nella
quale Prescott Bush si era laureato,
e l’appartenenza all’organizzazione
semisegreta degli «Skull and Bones»:
una specie di goliardia conservatrice
il cui motto, spiegatogli con allusioni politiche dalla futura ambasciatrice statunitense in Italia, Clare Booth
Luce (filosofia evidentemente ancora
attuale rispetto ai trascorsi della famiglia texana), grosso modo era: «Ci
sono tre cose da ricordare: si prende
tutto, non si spiega niente e ci si nasconde sempre».
Nel 1922 Walker e Harriman si
erano recati in Germania, incontrando proprio Thyssen, per porre le basi
della loro espansione bancaria e per
concordare investimenti in settori
dell’industria particolarmente critici,
soprattutto nell’ottica di un possibile
e futuro scontro bellico tra nazioni:
nell’occasione frequentarono a più
riprese anche l’imprenditore Friedrich Flick (nel 1947 condannato a
sette anni di carcere dal Tribunale
di Norimberga, di cui appena tre effettivamente scontati), il quale era
il deus ex machina della Vereinigte
Stahlwerke (United Steel Works Corporation in America), che si scoprì
essere il principale fornitore di armamenti bellici e di materie prime
alla Wehrmacht: si parla del 50,8 per
cento dell’acciaio, il 45,5% di tubi e
raccordi, il 41,4% dello stagno, il 38%
della lamiera galvanizzata, il 35%
degli esplosivi e il 22,1% per cento
di cavi e cablaggi. Sicuramente, i Bush avrebbero difficoltà oggigiorno
a negare di sapere chi fossero i loro
soci in un’importante attività lucrativa nel cuore di Manhattan a metà
del Novecento: ciò nonostante, anche
le loro biografie ufficiali (ad esempio,
«Duty, Honor, Country. The Life and
Legacy of Prescott Bush» di Mickey
Herskowitz) non ne fanno alcuna
menzione. La Union Banking Corporation, sciolta d’ufficio nel 1951,
comportò peraltro la liquidazione a
loro favore della somma di un milione e mezzo di dollari, fortuna
che deve aver giocoforza contribuito
al consolidamento dei loro interessi economici nei decenni successivi
e alla scalata alla Presidenza degli
Stati Uniti, che negli anni Novanta
e Duemila avvenne con figlio e nipote di nonno Prescott, che di suo
aveva già rappresentato il Connecticut in Senato dal novembre 1952 al
gennaio 1963.
Il 1951 fu un anno cruciale anche perché l’8 febbraio a Buenos Aires morì il vero proprietario di quel denaro, Fritz Thyssen, autore due lustri prima dell’autobiografico libro «I paid Hitler», scritto a quattro mani con il giornalista ungherese Imre Révész. Questa circostanza, unitamente ad altri episodi altrimenti davvero «inspiegabili», avalla oggi l’ipotesi di complicità o di un’omertà diffusa proprio in seno a quegli uffici investigativi che avrebbero dovuto vigilare sull’inquinamento dell’economia americana da parte di capitali nemici o quantomeno «sospetti», tanto più che sul finire del 1942 la UBC fu soltanto «congelata» dal Governo federale e nessuna azione penale venne mai intrapresa contro i Bush, gli Harriman o i loro funzionari di banca.
È utile aggiungere che il famoso e
potente Allen Dulles, primo Direttore della CIA e incaricato dell’Office of
Strategic Services (OSS) a Berlino nel
1947, era riuscito facilmente a farsi
nominare consulente legale dello US
Alien Property Custodian, l’autorità che
aveva operato la confisca della UBC e
dei suoi «asset», pur essendo l’avvocato che rappresentava la proprietà
occulta della Banca e segnatamente il
finanziere angloamericano Kurt von
Schröder, che era il fiduciario dei nazisti per le società di Thyssen. L’8 febbraio 1943, sei mesi dopo la confisca
dell’Union Banking Corporation da
parte degli organi federali, in un documento del Dipartimento del Tesoro
emerse che l’FBI aveva chiesto ragguagli sullo stato delle indagini contro i finanzieri newyorchesi, ma l’inchiesta si
era evidentemente già instradata in un
binario morto. Nei decenni successivi,
del resto, emersero altri indizi sulla
volontà dell’establishment americano
di impedire approfondimenti in quella
direzione. Silurato dal presidente John
Fitzgerald Kennedy poco dopo il fallito
sbarco americano a Cuba della Baia
dei Porci nel 1961, Dulles riuscì a indirizzare in Sud America le ricerche sul
gerarca nazista Martin Bormann del
reporter investigativo Paul Manning,
che si stava avvicinando troppo ai veri
meccanismi che legavano i potenti degli USA e del Terzo Reich attraverso il sistema bancario internazionale. E si
dice che la campagna elettorale di Richard Nixon sia stata sostenuta occultamente sempre dall’ex Direttore della
CIA per evitare che il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del
1968 potesse svelare il collegamento
dei Dulles con il denaro tedesco, appreso fin quando era un giovane ufficiale
di Marina nel 1942. John Foster, fratello di Allen e futuro Segretario di Stato,
aveva poi orchestrato un disinvolto finanziamento alle acciaierie dei Krupp
sfruttando il Piano Dawes [proposto
dopo la Grande Guerra per sostenere
l’economia tedesca nel pagamento dei
debiti bellici NdR]. In tempi molto più
recenti un altro esponente della stampa, l’olandese Eddy Roever, fu trovato
morto a Londra nel 1996 dopo che
aveva cercato di parlare con il barone
Bruno von Schröder - oltretutto vicino di casa di Margaret Thatcher - per
approfondire i congegni di riciclaggio
dei soldi dei nazisti prima e dopo la
guerra. Ma il suo decesso non sarebbe
rimasto un mistero isolato.
A morire di un insolito attacco cardiaco a New York era infatti
stato, all’inizio del 1948, anche il
misterioso Kouwenhoven (uno dei possessori di una sola azione della
banca UBC nonché eminenza grigia
dei Thyssen), il quale era spaventato dalle inchieste della polizia olandese sulle proprie attività: accadde
due settimane dopo l’incontro con
Prescott Bush, verificatosi attorno
al Natale del 1947. A raccontarlo
in maniera ben argomentata in un
saggio storico è John Loftus, avvocato costituzionalista della Florida, presidente onorario del Museo dell’Olocausto di Saint Petersburg e,
soprattutto, ex inquirente della Sezione Crimini di Guerra del Dipartimento della Giustizia USA: nel 1994
furono lui e Mark Aarons gli autori del controverso «The Secret War
Against the Jews», che procurò loro
non pochi grattacapi personali (Il
volume, cinquecento pagine di storia e di analisi politica, corredate da
altre 120 di riferimenti biografici,
dati oggettivi e fonti ufficiali, racconta le attività occulte intraprese
dai Paesi occidentali contro gli ebrei
e, successivamente al 1948, anche
nei riguardi dello Stato di Israele).
Per inquadrare lo scenario, giova
però insistere su chi fossero i soci
della Union Banking Corporation
in quel periodo ormai remoto, alcuni dei quali «di cittadinanza olandese o ungherese», come rammentano gli atti dell’epoca, o altrimenti
imparentati con gli stessi Bush. La
UBC, fondata il 4 agosto 1924 a
New York, era in realtà interamente
controllata da una banca straniera,
la Bank voor Handel en Scheepvaart di Rotterdam, con sede al 18 di Zuidblaak: curiosamente nella pro-
pria relazione ufficiale del 18 agosto 1941 l’investigatore federale
Leo T. Crowley scrisse però di «non
essere riuscito a raccogliere prove
circa la vera titolarità dell’istituto
di credito olandese», pur alludendo
all’esistenza di «nominees», cioè
di prestanome, che dichiaravano di non sapere a chi appartenesse
veramente. Erano trascorse poche
settimane dagli articoli del «New
York Herald Tribune» e del «Washington Post» che avevano messo la pulce nell’orecchio alla Casa
Bianca, ma lo US Alien Property
Custodian concludeva l’indagine
affermando che «se tutti o una parte dei fondi detenuti dalla Union
Banking Corporation, o dalle società che essa amministra, siano in
qualche modo riconducibili a Fritz
Thyssen, l’inchiesta di questo ufficio non è stata in grado di provarlo». Nel suo rapporto del 16 agosto
1941 anche Erwin May, un altro
inquirente del Tesoro distaccato
alla US Alien Property Custodian,
scriveva che «la mia indagine nonha raccolto evidenze circa la reale
proprietà della Bank voor Handel
en Scheepvaart, ma è altamente
probabile che Heinrich Thyssen,
fratello di Fritz, possa avere sostanziali interessi nella società».
Dopo aver ricostruito puntualmente i trasferimenti di denaro fra USA Canada ed Europa e aver individuato
nell’istituto di credito di Rotterdam la
loro sorgente, May era riuscito a risalire alle cariche sociali ricoperte da
Hendrik Jozef Kouwenhoven nella ragnatela di attività dei Thyssen. Nel giro
di poche decine di giorni Homer Jones,
capo della Sezione Investigazioni e Ricerche della US Alien Property Custodian, formulava al Comitato Esecutivo
la richiesta di confisca della UBC e di
tutti i suoi «asset» nonché il sequestro
delle quattromila azioni, da liquidare
a favore dello Stato: la sua proposta
non trovò però accoglimento presso le
autorità preposte. Fra il 1931 e il 1933
la Banca newyorchese acquistò in oro
l’equivalente di otto milioni di dollari,
tre dei quali rivenduti all’estero; la sua
liquidità, fra il 1924 e il 1940, si aggirò sempre attorno ai tre milioni, scendendo a uno soltanto in pochissimi periodi
della propria storia; non appena fon-
data, l’UBC depositò anche due milioni di dollari in contanti sui conti della
Brown Brothers Harriman e si dice che
abbia smerciato titoli di Stato tedeschi
per cinquanta milioni.
In verità, già i semplici nomi delle
persone coinvolte avrebbero potuto alimentare ben più di qualche preoccupazione prima del 1941. Iniziando dagli
stranieri, spicca ovviamente quello di
Lievense, il funzionario di banca domiciliato a New York in rappresentanza
degli interessi tedeschi, al quale si aggiungono Kouwenhoven, emissario di
Thyssen nei rapporti con George Walker e gli Harrimann in America, amministratore delegato della Bank voor
Handel en Scheepvaart nei Paesi Bassi
sotto occupazione nazista, procacciatore d’affari in Germania e responsabile
delle finanze estere della United Steel
Works Corporation (o Vereinigte Stahlwerke in Germania). E infine Groeninger, anch’egli intermediario per la UBC
in Olanda e industriale del Terzo Reich.
Proseguendo con gli americani, ci si
imbatte in «Bunny» Harriman, azionista di maggioranza e probabilmente
«fantoccio» di tutta l’operazione, visto
che Bush senior ebbe a definirlo «non
molto avvezzo all’attività bancaria»,
nonché in Harold Pennington, assunto alla Brown Brothers Harriman come
semplice impiegato, e Ray Morris, partner d’affari dei capitalisti statunitensi
coinvolti, tutti loro perfettamente calati
nei panni delle «teste di legno». È bene
precisare che la Bank voor Handel en
Scheepvaart, fondata nel 1916 da August Thyssen senior, sopravvisse alla
Seconda guerra mondiale e nel 1970
confluì nella Nederlandse Credietbank,
in concomitanza con un aumento di
capitale (i Thyssen ne ricevettero il 25
per cento, mentre la Chase Manhattan
Bank ne deteneva il 31). Per la nuova
holding venne scelto il nome «Thyssen-Bornemisza» e ancora oggi, se si
consulta il motore di ricerca del sito
del gruppo ThyssenKrupp A.G. (www.
thyssenkrupp.com), sorto nel 1998 in
Germania per fusione dei due omonimi
colossi della siderurgia, non mancano i riferimenti all’enigmatico istituto di
credito olandese: tale banca, dislocata
in un Paese formalmente neutrale, pri-
ma occupato dai tedeschi e poi controllato dalle truppe alleate, giocò costantemente un ruolo ambiguo fra le due
sponde dell’Atlantico e tra gli eserciti in
lotta. I banchieri di Rotterdam, proprio
perché i Paesi Bassi mantennero uno
status di neutralità, riuscirono anche
a rientrare in possesso nel Dopoguerra
delle loro proprietà. Cioè di quelle dei
Thyssen...
August, capostipite della dinastia imprenditoriale della Ruhr, era stato così scottato dalla perdita di ricchezze subita a causa della sconfitta della Germania guglielmina nella Prima guerra mondiale che giurò a se stesso di non voler più essere vittima di ingiustizie o di «capricci» della politica. Aveva così spezzato il patrimonio di famiglia tra due dei quattro figli, Fritz ed Heinrich: il primo mantenne la nazionalità tedesca, il secondo richiese e ottenne le cittadinanze olandese e ungherese, quest’ultima agevolata dal matrimonio con la baronessa magiara Margareta Bornemisza de Kászon. In pubblico il primogenito era disprezzato dal più giovane perché affiliato al Nazismo, cui aveva aderito ufficialmente nel dicembre del 1931, ma in privato collaboravano da perfetti oci in affari e naturalmente da fratelli. L’unico inconveniente fu quello di dover recuperare a guerra finita i certificati di proprietà, sepolti nei forzieri sotterranei e ricoperti di macerie della August Thyssen Bank di Berlino, ma nel maggio 1945 i sovietici autorizzarono le operazioni di un’unità d’intelligence dei Paesi Bassi al comando del principe Bernardo van Lippe-Biesterfeld, poi consorte della regina Giuliana: in teoria lo scopo ufficiale del gruppo era la ricerca dei soli gioielli della corona olandese, per il recupero dei quali godevano di lasciapassare per scavare nel settore orientale dell’ex capitale del Reich.
Un documento ignoto ai più, che
«Storia in Rete» ha ricevuto in esclusiva dall’Internationaal Instituut voor
Sociale Geschiedenis di Amsterdam
(«Istituto Internazionale di Storia Sociale»), reca in copertina in sequenza
i nomi dei tre istituti di credito, per il
pubblico e per le autorità totalmente indipendenti l’uno dall’altro, che
rappresentarono attraverso l’Olanda
la catena di trasmissione di finanziamenti americani ai nazisti, e viceversa: la Bank voor Handel en Scheepvaart, la Union Banking Corporation e la Von der Heydt’s
Bank, quest’ultima ribattezzata in seguito August Thyssen Bank. A
posteriori si è anche realizzato che fu
proprio la Banca di Rotterdam, partner di Bush e soci negli States, a con-
segnare il 26 maggio 1930 a Rudolf
Hess il denaro (si vocifera di 805.864
marchi) necessario all’acquisto e alla
ristrutturazione di Palazzo Barlow
a Monaco di Baviera: l’edificio fu
trasformato nella Braunes Haus, la
«Casa Bruna» che fu il primo quartier
generale del Partito Nazista. Su una scrivania del complesso, nello studio
di Adolf Hitler, spiccava la fotografia
incorniciata del cittadino americano
più ammirato dal futuro Cancelliere
del Reich: Henry Ford.
Conviene ritornare al misterioso
signor Lievense (detentore di quattro quote della UBC, morto il 22 settembre 1949 a Ridgewood, nel New
Jersey, ad appena quarantanove
anni) e riepilogarne gli incarichi per
coglierne l’effettivo ruolo di testa di
ponte hitleriana fra i grattacieli della
«Grande Mela»: era il rappresentante negli Stati Uniti della Domestic Fuel, società poi sequestrata dal Governo canadese perché sospettata di
intelligenza con il nemico, e della
Holland-American Trading Corporation, entrambe con sede legale al 39
di Broadway negli uffici della UBC;
fu presidente e direttore della Seamless Steel Equipment Corporation; era
direttore della Holland American Investment Corporation (le ultime due
confiscate dalle autorità statunitensi
il 28 ottobre 1942, una settimana dopo la Union Banking Corporation), nonché della August Thyssen Bank
di Berlino e della N.V. Handelscompagnie Ruilverkeer di Amsterdam. Il 7 novembre di sessantotto anni fa
un analogo sequestro arrestò anche l’attività della Silesian-American Corporation, multinazionale siderurgica
tedesco-americana. Complessivamente, in quell’autunno di guerra,
furono diciotto i clienti della Brown Brothers Harriman e della UBC le cui
proprietà in America vennero «congelate» sino a tutto il 1950 perché in
odore di Nazismo, comprese quelle
della baronessa Theresia Maria Ida von Schwarzenberg, della cui difesa
si incaricò Prescott Bush... Lievense, malgrado gli inquirenti statunitensi avessero dimostrato, registri alla
mano, che praticamente tutti i fondi
a disposizione della Union Banking
Corporation dal 1919 in poi provenivano dalla Bank voor Handel en
Scheepvaart (eccetto forse 400 mila
dollari conferiti dagli Harriman),
negò l’evidenza e cambiò versione più volte. Ma il «sistema» di cui
era parte iniziava a scricchiolare: ad
esempio, sempre alla fine del fatidico ‘42, l’esecutivo di Ottawa bloccò
la Cooperative Catholique des Consommateurs de Combustible, che importava carbone tedesco in Canada
in cambio di dollari. Il tutto sempre grazie alla rete di contatti americani
della famiglia Bush.
Con il Vesting Order number 126, l’ufficio dello US Alien Property Custodian aveva ordinato in preceden- za (28 agosto 1942) il sequestro della Hamburg-America Line, una compagnia di navigazione di cui è stata provata la complicità nei viaggi di spie tedesche verso gli Stati Uniti prima della Seconda guerra mondiale e che incoraggiava i «veri patrioti americani» a recarsi in Germania per conoscere il Nazismo. Quando le deboli autorità della Repubblica di Weimar decisero nel 1932 di smantellare le prime milizie armate di Adolf Hitler, fu la Hamburg-Amerika-Linie (collegata alla North German Lloyd di Brema) a rendere pubblicamente noto il disegno del Governo tedesco e a farlo letteralmente naufragare. La banca di riferimento degli armatori filonazisti era la finanziaria amburghese M. M. Warburg & Co (quest’ultima, fondata nel 1798 e tuttora esistente, era paradossalmente gestita dai fratelli ebrei Paul e Max Warburg, entrambi tedesco-americani; il primo fu artefice della nascita della Federal Reserve nel 1913, il secondo collaborò con i servizi segreti di Berlino durante la Grande Guerra). Non soltanto: ogni gerarca nazista aveva diritto a viaggiare gratis con le navi passeggeri della compagnia, i cui approdi negli USA erano essenzialmente i porti di Hoboken, nel New Jersey, e New Orleans, in Louisiana. La confisca di quest’importante compagnia marittima precedette di un paio di mesi quella della Union Banking Corporation, che della Hamburg America Line era diventato l’istituto di credito per operare oltre Atlantico, scoperchiando così un vaso di Pandora la cui portata complessiva è percepibile solo oggi.
Anche la Consolidated Silesian
Steel Company (CSSC), le cui azioni
passarono più volte di mano negli anni Trenta, è ricollegabile a Prescott Bush. Infatti, egli figura pure
tra i direttori della Harriman Fifteen Corporation, società titolare di quel terzo di quote dell’azienda non
imputabili all’industriale nazista Flick: il «New York Times» aveva
segnalato l’ambiguità della proprietà della CSSC già in un articolo
del 18 marzo 1934. Responsabile
dell’estrazione mineraria in Slesia sul confine tedesco-polacco, la
multinazionale occupò buona parte
della forza lavoro rinchiusa ad Auschwitz dal 17 giugno 1940 in poi
per la produzione di carburante per
l’aviazione. E non distante dal campo di concentramento e sterminio
più famigerato del mondo sorgeva
anche uno stabilimento della I.G.
Farben, la maggiore industria chimica dell’epoca, per la manifattura
di gomma (detta «Buna») e petrolio
sintetico dal carbone, il che segnò
l’inizio dell’attività delle SS e l’orrore dell’Olocausto: nel 1944 la fabbrica faceva uso di 83 mila schiavi,
in gran parte ebrei, che erano ridistribuiti fra una trentina di aziende. Il pesticida Zyklon B, del quale
la I.G. Farben deteneva il brevetto
e che veniva usato nelle camere a
gas, era fabbricato principalmente
dalla DEGESCH (Deutsche Gesellschaft für Schädlingsbekämpfung),
società posseduta al 42,2 per cento dallo stesso gruppo e che aveva manager della I.G. Farben nel consiglio
d’amministrazione. Secondo il libro
«The Crime and Punishment of I.G.
Farben» di Joseph Borkin, l’azienda
strinse accordi segreti con i più alti
vertici delle forze armate statunitensi perché non fossero bombar-
dati gli stabilimenti in Germania.
Altri legami, sempre rigorosamente
occulti, con la società petrolifera
Standard Oil of New Jersey (oggi
Exxon negli USA o Esso in Europa)
avevano lo scopo di arrivare alla gestione congiunta degli impianti
nei territori del Reich. Patti rispettati, perché alla fine del conflitto 93
fabbriche su cento del sodalizio nazi-americano (ad Auschwitz c’era la
Deutsche-Amerikanische Petroleum
A.G. o DAPAG) erano intatte...
Il giorno in cui emerse che, attraverso fondi della Standard Oil, veniva retribuito in maniera occulta il
capo delle SS, Heinrich Himmler (il
tutto grazie a conti cifrati alimentati
dalla Schröder Bank di Colonia i cui
afflussi si sarebbero interrotti soltanto nel 1944 inoltrato), scoppiò uno
scandalo che determinò la caduta e
forse il decesso prematuro, il 29 novembre 1942, del presidente William
Stamps Farish II (il cui figlio è tuttora
l’unico «privato» ad ospitare la regina d’Inghilterra Elisabella II nei suoi
viaggi negli Stati Uniti). Il 25 marzo
di quello stesso anno il Procuratore
Generale Aggiunto Arnold Thurman
aveva infatti portato in giudizio da-
vanti al Tribunale di Newark il boss
della Standard Oil of New Jersey con
l’accusa di aver cospirato a favore del
Governo tedesco e del nemico. Ipotesi
di reato terribili, soprattutto in quei
mesi, che ebbero però conseguenze minime per gli imputati: incredibilmente Stamps Farish e la sua azienda, fondata addirittura nel 1870 da John Davison
Rockefeller, se la cavarono con risibili
multe comprese tra i mille e i 50 mila
dollari. E quando nel 1980 George
Bush senior (genitore del Presidente
che ventotto anni dopo scoppierà in
lacrime nel Museo Yad Vashem di Gerusalemme) divenne Vicepresidente
degli Stati Uniti, non ebbe dubbi. Assegnò al fidatissimo William Stamps
Farish III, futuro ambasciatore americano a Londra tra il 2001 e il 2004 ed
erede dell’ex «complice dei nazisti»
nel commercio dell’oro nero, la gestione e l’amministrazione di tutti i
suoi beni, che vennero appositamente conferiti in un «blind trust».
Non tutto però si può dimenticare o nascondere con l’affidamento fiduciario a un amico di vecchia data. Così la Croce all’Ordine dell’Aquila Tedesca, onorificenza voluta personalmente da Adolf Hitler nel 1937 per gli «stranieri meritevoli» e attribuita il 7 marzo 1938 a Prescott Bush da Otto Meissner nella sua qualità di Segretario di Stato della Germania, fa bella mostra di sé ed è tuttora conservata negli archivi del Dipartimento della Giustizia a Washington, anche se non proprio accessibile a chiunque. Sì, perché il capostipite dei Bush, insieme con l’aviatore Charles Lindbergh, l’industriale dell’automobile Henry Ford e il fondatore del gigante dell’informatica IBM, Thomas John Watson, fu uno dei rarissimi cittadini americani a esserne insignito da parte del Terzo Reich...
Gabriele Testi
gabrieletesti@hotmail.com
Articolo estrapolato dal n°52 del periodico mensile "Storia in Rete", apparso in edicola l' otto Febbraio 2010.
Articolo estrapolato dal n°52 del periodico mensile "Storia in Rete", apparso in edicola l' otto Febbraio 2010.